In spiaggia col burkini. Libere di scegliere o di subire? Corpo, politica, arte e spazio sociale
Il dibattito sul burkini infiamma il web. Cannes, seguita da altre località francesi, decide di vietare questo castigato costume, usato dalle donne musulmane in spiaggia. Giusto? Sbagliato? Gli intellettuali si dividono, come l’opinione pubblica. Noi proviamo a ragionare. E in soccorso, sulla questione del velo e della condizione femminile nell'Islam, ci vengono anche le immagini di artisti, filmaker, vignettisti…
LA FRANCIA, L’ISLAM, IL BURQA E LA STREET ART
È il tema del momento. Nel vivo di un dibattito planetario sui temi dell’integrazione, dell’immigrazione, del terrorismo, del conflitto tra culture, nel bailamme di analisi lucide, tavoli internazionali, slogan populisti, razzismi striscianti e tragedie vere, anche il brusio lieve dell’estate si tinge di polemica. E si parla di donne. Le occidentali in bikini, le musulmane in burkini. Lo scontro tra civiltà, valori, tradizioni, finisce dritto sul bagnasciuga.
Succede che il Premier francese Manuel Valls si schieri con chi, tra le amministrazioni locali, ha messo al bando la tenuta da spiaggia delle islamiche: una specie di muta che lascia scoperti il volto, le mani, i piedi. Nulla a che vedere, dunque, con la copertura integrale di burqa e niqab: ed è già una conquista A inventarla, una decina di anni fa, la stilista australiana di origini libanesi Aheda Zanetti. E fu subito moda. Definire “comodo” il burkini, certo, è abbastanza improbabile. Tra il caldo, il tessuto che si appiccica al corpo, il senso di costrizione, non si tratta di un capo troppo “beach friendly”. E però, grazie a questa invenzione, migliaia di donne possono godersi una nuotata, senza trasgredire le regole della propria cultura. Senza sentirsi in colpa o a disagio. Senza subire il giudizio di padri, mariti, fratelli.
Comprensibile lo stato di terrore che piega la Francia, colpita a morte dalla follia dei soldati di Isis o di semplici esaltati, rapiti da una deriva ideologica oramai virale. Ma la psicosi non genera che conflitti e nuova emarginazione. E tocca citare il Ministro dell’Interno italiano, Angelino Alfano, che risponde impeccabile alla linea dura di Valls: “Ho grande rispetto per il loro dolore, ma fin qui siamo stati un paese sicuro per il grande lavoro di prevenzione, ma anche perché non abbiamo mai dato vita a comportamenti che facessero pensare a una crisi di rigetto della cultura musulmana. Io non prego Allah ma sono stato educato a una cultura che prevede la libertà di culto“.
I francesi, però – a cui tocca fare i conti anche con l’ala oltranzista del Front National – hanno scelto la via della laicità radicale, contro la radicalità religiosa islamica. Già ai tempi di Sarkozy. Nel 2010 l’allora Presidente, leader dei conservatori, dichiarò di voler vietare il burqa in tutta la Francia. La proposta di legge, pur criticata dal Consiglio di Stato, venne approvata a maggioranza dal Parlamento. Il dibattito esplose e anche l’arte lasciò un piccolo segno.
Il noto Street Artist britannico Nick Walker, concittadino di Banksy, realizzò un mega stencil su un muro di Parigi, lungo Quai de Valmy, con tanto di video racconto: Le Coran Can è una fila di ballerine di Can-Can, gambe all’aria, gonne a ruota e volti coperti dal Niqab. L’immagine di un cortocircuito violento, nella terra delle banlieu multirazziali, che sovrapporrebbe i liberi costumi d’Occidente al pudore religioso dell’Islam. L’opera, ironica, forte, provocatoria, è divenuta un simbolo della Street Art più engagé sul piano del dibattito politico-culturale.
Stret Art che in Medio Oriente, non di rado, si nutre di scintille rivoltose e riscopre vocazioni antagoniste, in difesa della libertà d’espressione e contro il pugno di ferro dei regimi. I muri diventano finestre sull’immaginazione, fogli bianchi a cui affidare messaggi di lotta o di sopravvivenza, linee di congiunzione tra intellettuali, cittadini, guerriglieri. E anche le donne, qualche volta, imbracciano pennelli e spray. È il caso di Shamsia Hassani, giovane artista femminista di Kabul, che la sua lotta contro i pregiudizi degli uomini e le sofferenze delle donne, l’ha affidata ai murales. Vietare il burqa? Per Shamsia non è la soluzione, come spiega in un breve documentario: “Libertà non è togliersi il burqa. È avere la pace. Anche se lo togli, hai ancora molti problemi da affrontare, come l’assenza di educazione, di eguaglianza, l’impossibilità di prendere decisioni. Se mettiamo via il burqa, niente sarà davvero cambiato”.
UNA VIGNETTA TRA ORIENTE E OCCIDENTE. OLTRE I LUOGHI COMUNI
E torniamo al famoso burkini. Vietarlo, in definitiva, perché? Qualcuno parla di pericolo terroristico, immaginando cinture esplosive nascoste sotto le tute balneari. Ma insomma, l’ipotesi è ben più improbabile dell’abito stesso. È proprio Monsieur Valls, invece, a spiegare la faccenda: “Il burkini è incompatibile con i nostri valori“. E lo scontro si infiamma, fuori dai confini francesi: sui social, sui giornali, tra la gente. Oltre le categorie politiche e le etichette comuni. Così, una femminista radicale di sinistra come Lorella Zanardo, o un’esponente del Partito Democratico come l’italo-somala Maryan Ismail, si schierano a favore del divieto e contro questo ennesimo strumento di mortificazione; una brillante femminista con un background a destra, come la giornalista Flavia Perina, bolla la questione come inutile strumento di distrazione di massa, rispetto ai reali problemi di sicurezza della Francia, ancora una volta ai danni dell’autodeterminazione femminile; e così la collega Farian Sabahi Seyed, che è anche docente di Storia dei Paesi islamici, parla di “falso problema”: il divieto farebbe unicamente“sentire i musulmani (e le musulmane) sempre più discriminati, presi di mira da una politica che non è in grado di occuparsi dei veri problemi della nostra Europa”.
E poi c’è un uomo, Mauro Biani, che sul Manifesto mostra come confezionare una vignetta intelligente sull’altra metà del cielo, aprendo una bella riflessione sui luoghi comuni (perché oltre la satira su cosce, cellulite e puttane, c’è di più): tra una donna in bikini e una in burkini, chi subisce cosa? Chi è libera sul serio? L’invito è a non dimenticare quando difficile sia, per tutte le donne, sottrarsi alla volontà dei maschi, del sistema, del mercato, del potere. Anche in Occidente.
Se fino a mezzo secolo fa, in certe province del Sud Italia, lo scialle nero sulla testa delle anziane era cosa pittoresca, assolutamente normale, oggi – libere da veli, matrimoni combinati o riparatori, tabù sessuali e limitazioni professionali, grazie a quella benedetta democrazia che altrove manca – si è libere fino in fondo, anche dai condizionamenti sotterranei? “Libere” di essere seduttive ad ogni costo, allineate a certi codici estetici o sociali, conformi a una certa taglia, siliconate, giovani per sempre, sessualmente disinibite ma non troppo, competitive ma non troppo, nonché audacemente scoperte, anche sulla pubblicità di un’utilitaria. L’insidia, che sbuca da lontano.
QUEL NERO CHE DIVORA. IMMAGINI PER RACCONTARE IL DOLORE
Difficile trovare risposte, per faccende talmente delicate e complesse. Soprattutto quando sono le donne stesse a difendere il proprio diritto di coprirsi, di infilarsi dentro una palandrana in pieno agosto. “Il corpo è mio e lo gestisco io” vale anche per le sorelle musulmane. Perché, allora, usare lo strumento forte, muscolare, di una legge che vieta, censura e decide al posto loro? Senza considerare che se liberali si è e si vuole essere, la strada della proibizione è sempre piena di trappole e di incoerenze: e se una donna, di qualunque etnia o religione, in piena autonomia, volesse fare il bagno tutta vestita? Lo vietiamo, supponendo che esista una costrizione?
E però, se vietare resta un atto sgradevole, forse dannoso, certo inutile ai fini di un reale cambiamento culturale (che non sarà mai frutto di imposizioni esterne), come negare che il concetto di libertà, in questi casi, si tinge di gravi contraddizioni? Se un esercito di donne (e non delle singole persone, sulla base del gusto, del carattere, dell’umore) sceglie di nascondere il proprio corpo, la libertà diventa omologazione. Frutto di una lunga storia di divieti incamerati, metabolizzati, fatti propri. La cultura islamica più retriva, maschilista, sessuofobica, ha inculcato a queste donne il principio della vergogna: il loro corpo (mai quello maschile) va occultato, mortificato, represso, posseduto unicamente dal marito e tenuto lontano dal resto del mondo. Mentre lo sguardo, il desiderio, la parola, la volontà, il passo e la sensibilità femminili diventano inessenziali rispetto allo spazio sociale.
Possiamo, guardando più in generale alla questione del velo islamico, parlare davvero di scelta? Possiamo non pensare, di riflesso, a quelle donne che scelgono l’atroce rito dell’infibulazione, per sé stesse o per le proprie figlie, ma solo per non sentirsi rifiutate, sbagliate, stigmatizzate?
Anche l’arte si interroga su questi temi. Nella consapevolezza che la questione del corpo rivela sempre una valenza politica fortissima. Basti citare, su tutte, l’immensa Shirin Neshat, che negli anni Novanta incontrò il successo con le serie Unveling e Women of Allah. Tragicamente sintetica, muta, eloquente, è ad esempio la fotografia Rebellious Silence, ritratto di donna con velo e fucile. La canna è premuta sulle labbra chiuse e l’immagine è quella, inequivocabile, della parola che manca, del silenzio come violenta condizione quotidiana. Parlano le parole scritte sul viso, incorniciato dal velo nero: versi fitti fitti della poetessa iraniana Tahereh Saffarzadeh. Il corpo si fa spazio di resistenza e affermazione clandestina, di forza e fragilità.
Ma sono tanti i giovani che proseguono su questa via di denuncia, analisi e osservazione critica. Tirando fuori piccole prove efficaci. È il caso di Akile Nazli Kaya, pluripremiato regista e animatore turco, formatosi tra Ankara e la Repubblica Ceca, con una serie di esperienze internazionali all’attivo, inclusa la vittoria, nel 2011, all’Aerokratas Competition di Praga. Miglior Film di quell’edizione fu il suo Enclosure (2011), definito “La raffigurazione di un incubo causato da fanatismo religioso”. Una donna svestita, ripresa ad altezza spalle, si dipinge intorno la sagoma di un Niqab. Pennello, vernice nera e una superficie vitrea su cui prende forma la sua prigione. Finché anche gli occhi scompaiono, dietro l’atroce finestrella ormai serrata. L’immagine implode nel buio, per mano della vittima stessa. E scompare anche il mondo, con lei.
Simile il concept di Fade to Black, stop motion firmata da tre giovani siriani, vincitori del Premio Speciale della Giuria al Toronto Urban Film Festival 2015: Amer Albarzawi, regista, Ammar Khattab, assistente, Farah Presley, attrice, fuggiti dal regime siriano e dalla morsa di Daesh. “Hanno cambiato la nostra cultura. Hanno cambiato tutto“, ha raccontato Amer a PBS.org. “Un giorno, non fumare. Il giorno dopo, niente ragazzi e ragazze insieme per strada. Dopo un mese, niente ragazze e ragazzi insieme a scuola. Poi hanno imposto l’hijab alle donne. Infine hanno detto ‘Non vogliamo studiare questa storia, fisica, matematica, vogliamo cambiarle. Sono musulmano, ma tutto questo per me è folle”.
Il film, in poco più di un minuto, precipita nel nero un paesaggio idilliaco, fatto di luce, colore, sorrisi, canti di uccelli e cieli tersi. E ancora una volta è una donna a farsi metafora di questa oppressione. In una manciata di secondi il suo volto sereno diventa maschera di dolore. Un abito nero, con tutte le sue simbologie, copre di nuovo il corpo, il volto, gli occhi, le mani. Lo schermo. Il sentimento del lutto, per questi giovani siriani, comincia da qua.
Helga Marsala
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