Giovani danzautori in scena a Ravenna
È giunta alla 18esima edizione la Vetrina della Giovane Danza d’Autore, nell’ambito del festival ravennate “Ammutinamenti”, che ha avuto luogo dal 10 al 22 settembre, appuntamento importante per capire cosa muove e stimola la ricerca coreografica. Un’occasione di visibilità per la rete Anticorpi XL, che sostiene i talenti emergenti.
GIOVANI E ANTICORPI
Anche quest’anno Vetrina Giovane Danza d’autore di Ravenna, luogo di ricognizione, esplorazione di nuovi autori indipendenti, ha offerto un’immersione nel variegato universo dei giovani coreografi che si affacciano al non facile linguaggio autoriale. Danzatori, emergenti e già affermati, in cerca di un confronto che li spinga a proseguire, o meno, verso la creazione in movimento. La Vetrina, sezione del festival Ammutinamenti, grazie anche alle attività di scouting degli operatori di quindici Regioni che fanno parte della Network Anticorpi XL, è diventata, negli ultimi diciotto anni, un appuntamento imperdibile per capire cosa muove e stimola la ricerca artistica nelle nuove leve. Qui si tastano anche il loro grado di preparazione, la tecnica, il talento, lo stile, le idee, l’indispensabile approccio creativo-compositivo. Inevitabile perciò la valutazione di livelli differenti. Dalle quattordici prove viste, delle diciannove presentate, emerge, in generale, pur con alcune evidenti ingenuità o velleità o nel persistere ancora di un certo concettualismo, la sensazione che a muovere la creazione sia una necessità vera, una motivazione interiore. E non è poco. Inoltre, dalla tre giorni ravennate si esce con la constatazione che la qualità dei performer, salvo qualche caso, è generalmente migliorata.
DESIDERIO E DIPENDENZA
Il bravissimo Andrea Costanza Martini – con esperienze alla Batsheva e al Cullberg, residente in Israele – rivela un connubio originale di espressione fisica e stato mentale, di gesto drammaturgico e padronanza compositiva. Il suo What Happened in Torino indaga con rigore tecnico e ironia l’esporsi allo sguardo altrui fra il desiderio e l’inquietudine di essere osservati. Si muove tra scatti e posture animalesche, da marionetta, poi, mentre una voce di imbonitrice televisiva lo interpella per manipolarlo facendolo sentire oggetto-merce, inseguito infine da un occhio di bue. In una dimensione sospesa Arianna Rodighero, con In between, fa evolvere nello spazio una gestualità trattenuta, veloce o in slow motion, tesa a recuperare ricordi ed emozioni. L’incertezza dell’assunto che la muove è anche nella struttura del vocabolario poco incisivo.
Presente anche nella scorsa edizione del festival, il duo Francesco Colaleo e Maxime Freixas, ora con Francesca Ugolini, indaga la dipendenza dall’alcool nelle nuove generazioni Smart. Beviamoci su_No game passa da divertimento e gioco – una sequenza troppo insistita in cui il trio ride molleggiandosi – a una sequenza cupa e drammatica. Se i coreografi mostrano padronanza della composizione nello spazio, allo stesso tempo essa rappresenta un limite sul piano prettamente coreografico, dove a prevalere è soprattutto la teatralità. Mattia Russo e Antonio De Rosa, altro duo con solida preparazione – entrambi nella Compañía Nacional de Danza di Madrid e con una loro compagnia in attività, Kor’sia –, in Yellow Place sono partiti dal colore giallo dei costumi per dare vita all’incontro tra due sconosciuti, al rapporto nascente, e all’evoluzione di esso nei tre stadi della crescita. Intrecci, assoli e passi a due solari, ironici, intensi, snervati, accompagnati prima da un carrello da supermercato, quindi da voci televisive, musiche varie e canzoni, con trovate originali che evidenziano idee in crescita.
DUETTI E PERFORMANCE
Rimanendo nell’ambito dei duetti, Fabio Novembrini e Roberta Racis, provenienti dalle fila del Balletto di Roma, a Ravenna hanno presentato la loro prima coreografia, Shelter, dove un uomo e una donna, giunti in uno spazio vuoto, ingaggiano una relazione empatica di gesti e codici comportamentali. Bravi danzatori, ma la loro relazione rimane molto esteriore, superficiale e non giunge a una reale complicità. Complicità che invece riesce al trio femminile del Collettivo Piratejenny composto da Sara Catellani, Elisa Ferrari, Giselda Ranieri. Col ludico Cheerleaders creano un meccanismo interattivo che nasce, da un lato, dalla necessità umana di auto-incitamento, e dall’altro dall’urgenza di rispondere al bisogno di appartenenza e identificazione a un gruppo. Sono creature meccaniche che reagiscono a un esperimento di interazione col pubblico. Gli spettatori, sistemati ai bordi di un quadrato e sollecitati a spostarsi da una parte all’altra, sono chiamati a condizionare i movimenti, la forma, i contenuti delle bravissime danzatrici, utilizzando il suono degli oggetti a terra, fra cui un campanello, una trombetta, un megafono. Ogni suono attiva una sequenza ritmica imprevedibile, ma che ha una sua struttura gestuale. Il tutto si conclude nel tempo prestabilito da un orologio digitale su uno schermo con una voce che chiosava: “Sessione odierna non classificabile perché eccessivamente caotica”.
Paradise: part 1, di Francesco Marilungo e Francesco Napoli, non è danza, ma creazione installativa, che si ispira allo stato di natura/perversione descritto da Leopold von Sacher-Masoch, da cui il duo sviluppa un personale immaginario iconografico dei concetti di feticcio e masochismo. Con la continua proiezione in bianco e nero di un filmato sgranato in cui una donna inginocchiata davanti a un crocifisso si autoflagella, uno dei due performer si sottopone a una lenta operazione di lavacro, affidata al partner, e a essere poi rivestito da un involucro nero di latex – meglio conosciuto come vacuum-bed. Decompressato, il tessuto riduce sottovuoto il corpo del performer con l’intento di sperimentare il piacere derivante dalla deprivazione d’ossigeno. Solo allora il partner si muoverà sul suo fisico inerme, attivando un rapporto di disconoscimento del reale per raggiungere un sogno perverso di felicità attraverso il dolore. Una simile performance forse starebbe bene in un altro contesto piuttosto che in una rassegna di danza.
SUONO E DINTORNI
Interessante il lavoro di Orlando Izzo, il quale con Vib-Vibrations in body crea una sorta di test uditivo manipolando degli oggetti sparsi sulla scena dei quali misura le distanze battendo poi su di essi un diapason, che ne riflette il suono. Tolti gli apparecchi acustici dall’orecchio, il performer attiva un suono da due casse di altoparlanti e si muove come a volerne catturare l’espansione. Bolognese ma con base a Berlino, Barbara Berti con I am a shape, in a shape, doing a shape non va oltre una performance concettuale che insiste troppo su una prima parte parlata – e una seconda con una serie di movimenti alquanto semplici – dove, con un quaderno in mano, scrive e articola parole muovendo la testa rivolta al pubblico a cercare un’empatia che non arriva. Alquanto debole, nella semplicistica coreografia e nella costruzione drammaturgica, la prova di Sara Pischedda in scena con Luca Castellano. In Satura…Si!, con una colonna sonora fatta di musiche molto diverse, cercano anche loro un contatto col pubblico nel far ripetere alcuni movimenti delle braccia e delle mani o porgendo alcuni indumenti. Sono due persone in una stanza chiusa, con mucchi di abiti a terra, che provano a rompere la loro solitudine indossando ciascuno, e poi togliendoseli, indumenti di ogni tipo uno sopra l’altro, assumendo goffe posture e rigonfiamenti, movimenti impacciati, fino a liberarsene e danzare denudati.
L’INTIMITÀ, LA POLITICA, LE DONNE
Ha una valenza anche politica, oltre che intima, l’intensa performance di Olimpia Fortuna, Senza titolo, sul tessuto sonoro di un proclama rivoluzionario argentino. Di spalle, incappucciata da una felpa, incarna una figura stilizzata, anonima, senza identità, che si muove dapprima inginocchiata, poi alzandosi, rasentando una parete sulla quale appende impercettibilmente a un chiodo la sua felpa, fuoriuscendovi lentamente come da una larva, restituita al mondo nella sua essenza di persona. Tradizione, danza, taiko e musica elettronica, sono fuse dagli italo-giapponesi Masako Matsushita e Mugen Yahiro in Taikokiat studio 01, nel tentativo di rappresentare due mondi: uno governato dagli spiriti, l’altro dagli uomini attraverso l’arte. Ma la fusione, a parte gli azzeccati elementi scenici e i costumi dalle fogge orientali, non avviene nella coreografia, segnata, tra sciabolate di bastoni, percussioni e luci suggestive, da due stili molto diversi.
Davide Valrosso, in Cosmopolita beauty, si presenta sdraiato con dei coniglietti giocattoli messi in fila sul suo corpo, dove la memoria delle cose perdute ha lasciato delle tracce. La sua ricerca della bellezza, dei gesti seppelliti, diventa via via conoscenza della fragilità della persona ma anche della sua forza. Uno stato di spaesamento, di implosione e di meraviglia è espresso da movimenti ora vibranti, ora tesi, ora sospesi, disegnati in uno spazio che sembra aprirsi sempre di più. Infine, otto danzatori ben agguerriti compongono Monarch: Antigone, coreografia di Mattia De Virgiliis che affronta il tema dei conflitti oggi, partendo dalla storia dell’eroina greca e di Creonte per parlare della violenza nei confronti delle donne. Una danza tribale, di grande fisicità, con un ritmo trascinante, dentro un suggestivo gioco di luci, ma che sembra attingere a piene mani, e piedi, dalla danza esplosiva e percussiva di Hofesh Shechter.
Giuseppe Distefano
www.festivalammutinamenti.org
www.anticorpi.org
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