Giulia Maiorano racconta l’opera realizzata per Artribune Magazine
Sulla cover del numero #34 c’è una fotografia di Giulia Maiorano. Chi è e perché l’abbiamo scelta lo potete leggere qui
Sin da piccola mostra una particolare attitudine per il disegno, che la porta a frequentare prima il Liceo Artistico e poi la NABA di Milano. Il lavoro di Giulia Maiorano nasce dal mondo dell’infanzia, sorgente da cui attinge per “modificare” il suo immaginario di ricordi e memorie e tradurlo in un confronto diretto col pubblico. Anche i materiali che usa fanno spesso parte del suo vissuto, passato e presente. La performance per lei non è uno strumento d’indagine del corpo in sé, ma un rituale per coinvolgere il pubblico e farlo interagire con le sue installazioni “abitabili” e, in alcuni casi, trasformabili.
Che libri hai letto di recente?
The Model di Lars Bang Larsen e sto rileggendo Non volendo aggiungere altre cose al mondo di Emanuela De Cecco.
Che musica ascolti?
Ho un debole per la musica del passato, dalla classica con Chopin e Callas, al romanticismo degli Anni Sessanta con Battisti, Modugno e Settanta con i Queen, che mi accompagnano mentre giro in bicicletta per la città.
I luoghi che ti affascinano.
Le montagne.
Le pellicole più amate.
D’amore si vive di Silvano Agosti, 8½ di Fellini, Her di Spike Jonze.
Artisti guida.
Liliana Moro, Pierre Huyghe, Riccardo Dalisi e Fluxus.
Partirei da un elemento che ho ritrovato in molte tue opere: il gioco. Che rapporto hai e cosa nasconde l’aspetto prettamente ludico che a volte condividi col pubblico, facendolo interagire con le tue installazioni?
L’aspetto ludico consiste innanzitutto in un esercizio quotidiano spesso inconsapevole, dove mi ritrovo in una mia dimensione. Rispetto al lavoro, il gioco è sia una scelta stilistica, sia, durante la fase d’installazione, il tentativo di avvicinare l’opera allo spettatore, in modo da portare entrambi su un piano di complementarietà.
Usi materiali facilmente reperibili, tra cui mattoni, matita, legno, carta stagnola ed elementi di arredo che presumo appartengano al tuo vissuto.
Sì, sono materiali che appartengono al mio vissuto e al mio presente, incontri a volte casuali e altre frutto di una ricerca specifica perché funzionali a ricoprire certi ruoli che decido per loro. E poi sono convinta che la forza di un lavoro, di qualunque genere esso sia, non dipenda da mezzi sofisticati; anzi, più la materia è semplice e più sarà naturale e spontaneo il suo utilizzo.
Crei spesso set curati nei minimi dettagli per poi fotografarli. Che cosa rimane di quei set? E qual è il risultato finale?
Ciò che rimane: il piedistallo, ossia il comodino che uso abitualmente, i fondali costituiti da immagini di un calendario e tutti i materiali coinvolti che custodisco divisi per tipologie, in scatole di cartone e legno, in un tempio-armadio. Il risultato finale è un’installazione in cui dei paesaggi fuoriescono dall’immagine bidimensionale del foglio per estendersi sul comodino. A volte sono luoghi coerenti con lo sfondo, altre sono disconnessi e frutto di accostamenti non consequenziali.
Uno dei luoghi che prediligi nell’inscenare le tue installazioni è la tua casa. Perché?
Con la casa, in quanto luogo del privato che diventa di dominio pubblico, rendo visibile una dimensione generalmente intima. Sottolineo i rapporti fra interno ed esterno, coinvolgendo anche lo spazio intermedio del cortile o della città e chi vi abita. La casa inoltre come deposito di oggetti, coinquilini silenziosi che si riempiono di un vissuto imposto dall’esterno ma che a loro volta emanano l’appartenenza ad altri tempi e luoghi.
Usi spesso la performance, anche se non ne sei sempre protagonista. Non è finalizzata a un lavoro sul tuo corpo; al contrario, grazie alla performance, rendi le tue opere “percorribili”, “usabili” e “trasformabili” dal pubblico.
Nella maggior parte dei casi le mie performance sono studi su come guardare e abitare lo spazio espositivo e urbano, in modo differente da quello convenzionale. Ad esempio, induco chi partecipa ad abbassarsi fisicamente all’oggetto per farne un’esperienza umile, quasi primordiale, oppure ne cambio l’equilibrio e il punto di vista per favorire nuove relazioni. Anche la possibilità di toccare ciò che metto a disposizione rende i lavori aperti e influenzabili dagli umori di chi li circonda. Il suono e la luce sono ricorrenti, indicatori di direzione e senso che si sostituiscono al linguaggio verbale per trasformarsi in comunicazione essenziale.
Realizzi dei video delle performance. Sono opere in sé o solo materiale di documentazione?
Dipende dal lavoro, però generalmente i video delle performance sono per me materiale di documentazione di ciò che accade nella realtà, quindi rimangono strumenti di osservazione.
Disegno, fotografia, installazione, performance. Cosa li accomuna?
Li accomuna un processo di approfondimento e distacco. All’inizio sono situazioni ludico-sperimentali, dove stabilisco precise regole e modalità che mi sono dettate da quel momento. Solo in una seconda fase, quando posso tradurre quelle sensazioni in modo che siano fruibili anche agli altri, arrivo a fotografare, installare.
Com’è nata l’immagine inedita che hai creato per la copertina di questo numero?
Pensando al miglior autoritratto che potessi fare.
Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #34
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