Città critiche: Torino. Il racconto di Luca Beatrice
Dopo Francesco Poli, narratore della Torino Anni Settanta e Ottanta, la parola va a Luca Beatrice e al suo punto di vista sul panorama culturale torinese contemporaneo.
Si è laureato in Storia del Cinema e ha fatto la Scuola di Specializzazione a Siena con Enrico Crispolti. Così è iniziata un’inaspettata carriera per Luca Beatrice, torinese classe 1961, che è sempre stato una voce fuori dal coro nel mondo dell’arte. Vuoi per la sua passione smodata per il calcio e la Juventus, vuoi per le sue prese di posizione politiche che l’hanno visto vicino a Silvio Berlusconi e a Forza Italia, nonché firma fissa su Il Giornale. Con lui abbiamo parlato di cultura a Torino dagli Anni Novanta a oggi.
Dal 1993 al 2001 il sindaco di Torino è Valentino Castellani. Giudizio?
Gli Anni Novanta hanno funzionato da incubatore di una serie di esperienze. Torino ha vissuto in quegli anni la sua prima grave crisi economica e la città ha dovuto reinventarsi. Ci sono stati fenomeni interessanti che venivano dal basso: i giovani scrittori, e fra di essi Baricco; un ambiente musicale fertile e vivace, prima ancora dei Subsonica; il Torino Film Festival, che si chiamava Cinema Giovani; e soprattutto c’era l’arte: moltissime gallerie, ad esempio, sono nate in quegli anni, con artisti che hanno sostituito la seconda generazione di poveristi, quelli che si erano imposti negli Anni Ottanta.
In tutto questo, che ruolo ha avuto l’amministrazione?
Non è stato affatto secondario. Castellani ha capito velocemente la trasformazione che era in corso.
Sull’arte italiana degli Anni Novanta hai scritto un libro “militante” insieme a Cristiana Perrella e, vent’anni dopo, avete fatto una mostra al Museo Ettore Fico. Quali erano le peculiarità della scena torinese?
Parliamo di una generazione di 25-30enni. Ti ricordo che Pierluigi Pusole partecipa alla Biennale del 1990 a 27 anni. E c’era Bruno Zanichelli, che è morto alla stessa età. Sono loro che hanno dato la stura a una serie di fenomeni che si sono sviluppati dopo.
Ad esempio?
La pittura figurativa, che in quegli anni ha goduto di una grande attenzione a Torino.
Cosa succede grazie a questa specificità?
Nascono nuovi collezionisti, giovani professionisti che avevano conosciuto l’Arte Povera – a Torino la Transavanguardia non ha lasciato una traccia profonda – e che frequentano gallerie come In Arco, Weber, Paludetto, e poi Guido Carbone, la cui ultima galleria era proprio qui, dove ora ho il mio studio. Sono emersi artisti come Daniele Galliano, che ha dimostrato di saper tenere negli anni, o i “medialisti”, artisti di cui non si sente più parlare ma che all’epoca erano molto in voga e che rappresentavano una Torino molto vivace – i vari Enrico De Paris, Victor Kastelic, Stefano Pisano. Sergio Cascavilla…
Si definiva Torino la “capitale dell’arte contemporanea”. Era vero?
Non è mai stato vero. Se di capitale dell’arte contemporanea in Italia si deve parlare, è e resterà sempre Milano.
Una parola che si usava moltissimo era “sistema”. Soltanto retorica?
La città aveva scoperto una vocazione, quella dell’accoglienza. Un tempo si veniva a Torino per due ragioni: lavorare e andare a vedere la Juventus. Negli Anni Novanta abbiamo cominciato a scoprire che avevamo anche altre cose. Le grandi invenzioni sono state Slowfood e Eataly: di quello si parlerà fra vent’anni. Il sistema dell’arte è stata una conseguenza, messo in piedi da una cerchia ristretta di attori: d’altronde Torino è una città di famiglie.
Nel 1990 al Castello di Rivoli arriva Ida Gianelli, che ci rimane fino al 2008.
Ha avuto un incarico più lungo di quello di Alex Ferguson sulla panchina del Manchester United.
Con risultati?
Eccellenti, visti in prospettiva.
In prospettiva?
Beh, se consideri cos’è successo negli ultimi anni, bisogna ammettere che lei è stata un grande direttore. Devo quindi fare ammenda: certe critiche nei suoi confronti sono state esagerate.
I mezzi a disposizione però sono cambiati. Radicalmente.
È vero, non so se sarebbe stata capace di agire in una situazione come quella odierna. Probabilmente si sarebbe dimessa. Comunque, una volta andata via lei, il Castello di Rivoli è morto. È tenuto in vita con la bombola d’ossigeno, ma è accanimento terapeutico.
A proposito: l’Arte Povera esercita ancora una profonda influenza?
Sì, molta. Però ci si sta accorgendo che negli Anni Sessanta e Settanta – dopo i quali l’orologio biologico dell’arte italiana si è fermato, a parte Cattelan e Vezzoli – ci sono stati altri fenomeni interessanti.
Nel 1994 nasce Artissima, fondata da Roberto Casiraghi e, dopo alcuni anni, sostenuta da denaro pubblico. Un investimento sensato?
Una fiera sovvenzionata dagli enti pubblici è una grande anomalia. Però alla lunga, e soprattutto nell’ultimo decennio, è stato più funzionale quello, per la crescita di reputazione artistica della nostra città, rispetto a quanto è stato fatto per il Castello di Rivoli o per la GAM.
Alla fine del decennio apre Franco Noero, e in pochi anni diventa una galleria importante a livello internazionale.
Franco sa scegliere gli artisti, ma soprattutto è un abilissimo mercante: ha imparato il mestiere da Daverio e da Sperone.
Il XXI secolo a Torino è sinonimo di Sergio Chiamparino, sindaco dal 2001 al 2011.
Il Chiampa è molto simpatico, è carismatico e soprattutto ha un grande pregio: della cultura non gliene frega e non glien’è mai fregato niente. Però, visto che è una persona estremamente ragionevole, ha capito che poteva diventare il core business della città.
Nel 2002 apre la sede torinese della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Qual è stato il suo ruolo a Torino?
Per una città che tende a nascondersi, una donna – donna! – giovane che non solo apre un museo, ma lo chiama col suo nome… Patrizia ha avuto il grande coraggio di giocarsela in prima persona, con l’intelligenza e la fortuna di incontrare Francesco Bonami, che in quegli anni è stato il curatore italiano con maggior prospettiva internazionale. Hanno fatto un lavoro di prima scelta, ma se mi chiedi quanto sia stato importante per la città, allora non ti so rispondere.
Parlavi di una città di famiglie. A guardare Fondazione Sandretto e Pinacoteca Agnelli, si notano due modi di muoversi diversi…
Molto diversi! Patrizia ha guardato all’estero con attenzione e umiltà, e quella dell’arte è stata una grande occasione di posizionamento sociale. È a lei che si guarda quando si cerca un interlocutore per l’arte contemporanea in Italia.
Un pezzo importante del sistema è l’Accademia Albertina, soprattutto con la direzione di Guido Curto dal 2005 al 2011. Sono anni in cui l’Accademia si apre finalmente alla città.
Quello che dici non è sbagliato, però l’Accademia è una scuola. Un’Accademia seria – e in Italia non ce ne sono – dovrebbe preparare una classe dirigente culturale. E invece si dà poca importanza all’insegnamento e troppa a tutti questi eventi, mostre, riconoscimenti… Noi siamo pagati per insegnare! Purtroppo invece la scuola è considerata un ammortizzatore sociale, e in questo modo si fanno dei danni terrificanti.
Parliamo dell’anno clou: 2006, Olimpiadi invernali. Torino inizia a esistere nell’immaginario, oltre lo stereotipo della grigia città industriale.
Per me il 2006 è l’anno di Calciopoli: con una farsa si tenta di riscrivere la storia in tribunale – come è stato fatto per la politica – e la Juventus viene mandata in serie B. Detto ciò, le Olimpiadi sono state un bel momento e su quelle due settimane abbiamo vissuto di rendita per dieci anni.
Arriviamo così all’era Fassino, dal 2011 al 2016.
Da politico di razza, ha capito che doveva dialogare innanzitutto con chi non l’aveva votato. Io con lui ho avuto un rapporto significativo.
Perché ha perso alle ultime elezioni?
Si è trovato a dover gestire una campagna elettorale che puntava troppo su un aspetto che per noi – per me, per te, per chi ci leggerà – è fondamentale, quello della cultura, ma che al 95% della popolazione non frega niente. La cultura non porta voti!
Sei presidente del Circolo dei Lettori dalla fine del 2010 e hai dato una svolta notevole a quel luogo.
È una carica onorifica, però gli dedico molto tempo. Questa città mi ha dato tanto e bisogna anche saper restituire alla collettività. A ottobre abbiamo festeggiato dieci anni. Però non mi presenterò per un terzo mandato: rischierei di lavorare sulla coazione a ripetere.
Torniamo a parlare di Milano: con MITO Settembre Musica il rapporto è andato piuttosto bene. Col Salone del Libro, invece, Torino si è presa una batosta memorabile.
Però se l’è andata a cercare! In primo luogo, è stata creata una fondazione [la Fondazione per il Libro, N.d.R.] sotto il cui nome sono stati commessi sprechi e illeciti. Un carrozzone ingiustificato per un evento che dura cinque giorni. E poi il modello-Salone era superato: una grande libreria a cielo aperto, poco innovativo, poco attento a cogliere i fermenti più attuali. E poi c’è una questione politica.
Cioè?
Fassino ha perso le elezioni e Renzi ha consegnato il Salone del Libro a Beppe Sala. Guarda cos’ha fatto Franceschini: un giorno difende il Salone e il giorno dopo le elezioni se ne fotte. Se avesse vinto Fassino, non sarebbe finita così. Comunque adesso stiamo cadendo nel ridicolo.
Che sensazioni hai su Chiara Appendino?
Io l’ho conosciuta quando lavorava alla Juventus, e questo le fa onore! È una persona moderata, anche perché altrimenti Torino non la governi. Io però ho molte riserve sul Movimento 5 Stelle in generale e, per quanto riguarda lo staff culturale della Appendino, non mi sembrano particolarmente competenti. Magari mi sbaglio. Comunque, quando abbiamo inaugurato Torino Spiritualità, per la prima volta da quando sono presidente del Circolo non c’era nessun rappresentante della città.
Il giudizio vale anche per l’assessore Leon?
L’“assessore alle fontane”, come dice Gabriele Ferraris. Finora non siamo mai riusciti a scambiare due parole. Il passaggio è traumatico, ma la Appendino ha capito che qui non puoi fare la Raggi…
In effetti, in campagna elettorale diceva di voler chiudere la Fondazione per la Cultura, poi ha dichiarato che l’avrebbe fatto “entro il quinquennio”. Ha cambiato idea?
Le hanno fatto cambiare idea.
A pensarci bene, è una Torino quasi tutta al femminile: dalla sindaca all’assessore, passando per Patrizia Sandretto, Beatrice Merz, Ginevra Elkann, Patrizia Asproni, Sarah Cosulich, Carolyn Christov… A proposito, che giudizio dai della direttrice di Castello di Rivoli e GAM?
Se in un anno il suo contributo è stato Organismi e la più brutta mostra di Giovanni Anselmo di tutti i tempi… E poi non capisco: doveva lavorare all’avvicinamento di GAM e Castello di Rivoli, e poi fa la mostra di Ed Atkins la fa a Rivoli e alla Fondazione Sandretto. Non capisco se ha una visione, se ha una strategia. Ha fatto delle mostre molto importanti ma dirigere un museo è un altro mestiere, e non credo che lei sia in grado di farlo.
Il futuro dell’arte a Torino?
Mi piacerebbe vedere dei nuovi artisti. Mancano da tanti anni, a parte rarissime eccezioni. In questa città ci sono più musei che artisti, e non è un dato confortante.
Manca la produzione…
… e mancano pure le idee. Verremo ricordati come la città di Oscar Farinetti e di Carlin Petrini.
Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #34
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