Brain Drain. Parola a Diana Baldon
Originaria di Padova, dal 2014 Diana Baldon dirige uno dei più prestigiosi musei europei d’arte contemporanea in Svezia, la Malmö Konsthall, dopo aver compiuto i suoi studi a Londra e i primi passi professionali fra Austria e Svezia.
Diana Baldon, classe 1974, è un esempio di talento e determinazione nostrana, che ha scelto la carriera internazionale molto presto. Dell’Italia loda la competenza intellettuale, ma sottolinea la scarsa visione istituzionale.
Perché hai scelto l’estero?
Ho studiato lingue straniere al liceo e fin da bambina sono sempre stata un’esterofila incallita, per cui un percorso professionale internazionale era inevitabile. Sono piombata in Svezia dall’Austria, in conseguenza della mia nomina a direttrice di Index – The Swedish Contemporary Art Foundation a Stoccolma. Nel 2014 mi sono trasferita 600 chilometri a sud per ricoprire la carica di direttrice della Malmö Konsthall, uno dei centri d’arte contemporanei più grandi e belli d’Europa. Parlo quattro lingue, per cui non ho mai avuto problemi nel comunicare in ambiti diversi tra loro.
Come sono le istituzioni culturali svedesi?
La Svezia, così come gli altri Paesi della Scandinavia, è un Paese dove l’apprezzamento, la partecipazione e lo sviluppo della scena culturale dipendono quasi esclusivamente da politiche e fondi statali. La Svezia presenta una miriade di piccole istituzioni pubbliche che esistono da oltre cinquant’anni, molte delle quali sono attive localmente sotto forma di “case della cultura”. Allo stesso tempo, il mondo istituzionale che ha peso a livello internazionale è un miscuglio di istituzioni fantastiche, come la Malmö Konsthall, il Moderna Museet o il Bildmuseet di Umeå – tutte queste pubbliche – e, per citare due esempi, le fondazioni private della Bonniers Konsthall e Magasin III.
Quali opportunità ci sono per gli operatori stranieri?
Non ho avuto ancora modo di collaborare con il centro di cultura italiano, ma ho invece collaborato con il Goethe-Institut, l’Institut Français de Suède e il Polish Institute Stockholm, che hanno contribuito generosamente a lasciare una traccia importante nelle memorie istituzionali sia di Index che della Malmö Konsthall. Ci sono molti fondi nordici che sponsorizzano progetti al fine di coinvolgere professionisti di più Paesi scandinavi.
Lavori con artisti e istituzioni italiane?
Da quando abito in Scandinavia, vedo la situazione diametralmente in senso opposto. Penso che da un po’ di anni a questa parte l’Italia sia diventata un polo di riferimento artistico importante grazie al lavoro eccezionale di molti colleghi e colleghe a capo di musei, fiere, riviste e altri tipi di organizzazioni indipendenti. A mio parere si sta delineando una raffinatezza intellettuale che è eccezionale, capace di coltivare un dialogo importante con pratiche artistiche sperimentali e progressiste non necessariamente dominate da logiche di mercato. In due delle mostre del 2015, ad esempio, ho coinvolto Adelita Husni-Bey (la collettiva Moving Image Art across the Arab World), Andrea Lissoni e HangarBicocca di Milano (Light Time Tales di Joan Jonas), quindi, se posso, sì: mi piace molto lavorare con professionisti italiani. Inoltre l’anno scorso ho lavorato anche con Mousse Publishing, che ha pubblicato il catalogo delle mostre personali di Carla Zaccagnini e Runo Lagormasino.
ADELITA HUSNI-BEY – Postcards from the Desert Island from Kadist Paris on Vimeo.
Come riassumeresti lo stile estetico nordico?
Formalista e geometrico.
Com’è percepita l’Italia dal tuo punto di osservazione?
Direi che l’Italia sta facendo un gran lavoro e tutti gli artisti, curatori, critici, galleristi e collezionisti che vi contribuiscono si meritano attenzione e rispetto. Speriamo che il governo italiano prenda in considerazione questo momento di alta qualità del panorama artistico italiano e si impegni a consolidare questi sforzi.
Neve Mazzoleni
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #31
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