Fuori c’è ancora una grande scritta che si confonde con il tempo: Lanificio. Un impeto manifatturiero che guarda il tribunale, migliaia di macchine e motorini a sfrecciare disordinati, e una chiesa adiacente su una piazzetta. A pochi metri la stazione centrale. Quando Napoli era una delle grandi capitali europee, l’intero complesso venne requisito alla Chiesa nell’Ottocento da Ferdinando di Borbone che ne sostenne la trasformazione in opificio per la produzione di lana e divise militari. Da quel momento il chiostro adiacente alla chiesa e la grande corte attigua, al centro di Porta Capuana, cambiano destinazione d’uso in fabbrica, occupando oltre quattrocento persone. Poi un lungo degrado. Malavita, droga, prostituzione.
Oggi entrare nel chiostro fa vibrare ancora quelle memorie stratificate. Un restauro visionario, ancora in corso e per lotti, ha trasformato una parte di città in un luogo di nuova produzione, attraverso il contemporaneo.
Made In Cloister ha ispirato e promosso la creazione di un cluster culturale formato da diversi soggetti pubblici e privati i quali, ciascuno con la propria vocazione, contribuiscono alla rigenerazione di una delle zone critiche della città. È così, come mi spiega l’architetto Antonio Martiniello, uno dei tre founder: “Non è un altro luogo espositivo, una galleria o un museo, ma uno spazio complesso e multilivello, che ritorna a essere fabbrica che produce contenuti sociali e artistici capaci di integrare le emergenze sociali e trovare una nuova chiave sostenibile per il quartiere come per il Mediterraneo”. E così si sta creando un network di imprese creative che collaborano con i musei e le istituzioni educative del territorio.
Ma non solo. L’interazione fra artisti e artigiani, immigrati e lavoro, fa crescere la consapevolezza necessaria per migliorare la qualità della vita dei residenti e delle nuove generazioni. Con presenze molti speciali come Jimmie Durham, che proprio nell’ex Lanificio ha il suo studio italiano. E l’associazione culturale Lanificio 25, la cooperativa Dedalus e Officine Gomitoli, la galleria Dino Morra, lo spazio IntoLab e lo studio di arti performative della coreografa Valeria Apicella. E tanto ancora deve venire. Un esempio per il sud e per il Mediterraneo, per un nuovo made in.
Cristiano Seganfreddo
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #33
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