Giancarlo Scorza – Lo spettro dell’immagine
Nella mostra Lo spettro dell’immagine, che raccoglie una quarantina tra dipinti e disegni datati dal 1940 al 1987, tutti riprodotti in un nitido catalogo edito per i tipi “Archivio Umberto Mastroianni”, Scorza coglie un istante e lo fissa in un tempo senza limiti, ne fa il paradigma di una realtà minuta, semplice, spoglia e desolata.
Comunicato stampa
È molto difficile spiegarsi come un artista, che sta tra i più singolari della sua generazione, sia rimasto quasi sconosciuto al grande pubblico; e neppure conosciuto in tutta la sua completezza, se non da pochi critici e storici dell’arte come Valerio Volpini, Lorenza Trucchi, Filiberto Menna, Francesco Arcangeli, Vanni Scheiwiller e Michael Semff, e da maestri come Felice Carena, Leonardo Castellani e Giorgio Morandi. Parliamo di Giancarlo Scorza, pittore e acquafortista di notevole forza espressiva, nato a Pesaro nel 1922 e morto nella stessa città all’età di sessantacinque anni. Sarà da mettere subito in conto la ritrosia di Scorza, il suo vivere isolato, la sua distanza da mercanti e critici, non desiderare mostre, non curare cataloghi, non sognare monografie. È un artista vero, insomma, perso nella sua pittura, in quella difficile pratica quotidiana di trasportare su brevi carte, o non grandi tele, le parvenze poetiche della realtà; che è una pratica, come si sa, che necessita la protezione della penombra e del silenzio.
La techne pittorica e grafica di Scorza sembra depositarsi lieve, come un velo di farfalla, un tremito d’ali, sul foglio, sul cartone, sul legno, sulla tela, persino frammento di carta da pacchi. Sembra facile tale traccia fatta di poche forme, di pennellate brevi e istintive, come a dettatura di una fulminea ispirazione; eppure tutto palpita, tutto lentamente si sprofonda. Nei suoi lavori l’immagine risulta densa, completa, ricca della sua tenerezza, delle sue stesure delicate e solide, di ombre e luci che fanno corpo: risulta meditata e vera, di quella verità che non esiste nel reale, ma ne è come un’anima, un fantasma, un cuore segreto.
Si sono nominati, per la ricerca figurativa di Scorza, Morandi e Mario Mafai, come agli estremi di una sua più ampia poiesis. Ma il poliedrico artista pesarese (che si è interessato di letteratura e di poesia, di traduzione di testi di Goethe e di Rilke, di estetica e di storia, di fotografia e di cortometraggi) è molto diverso dall’uno e dall’altro: dalla struttura tonale eternata del primo, dalla tragica screpolatura materica del secondo; forse c’è solo tra di loro l’appartenenza a una stessa famiglia spirituale. Nel sottile spessore policromo del Ritratto di mia sorella del 1949 o della Brocca con fiori rossi del 1954 bruciano le forme come impronte; la luce emerge lentamente dal fondo del quadro; nuances scure ovunque fremono, si distendono, proteggono e inquietano, mentre nel Paesaggio marino del 1957 dalle macchie abbrunite delle nuvole nasce uno smeraldo d’aria o dalle onde dense come lava un taglio di azzurro.
Curata da Floriano De Santi, come documenta assai bene l’antologica urbinate Giancarlo Scorza. Lo spettro dell’immagine, che raccoglie una quarantina tra dipinti e disegni datati dal 1940 al 1987, tutti riprodotti in un nitido catalogo edito per i tipi “Archivio Umberto Mastroianni”, Scorza coglie un istante e lo fissa in un tempo senza limiti, ne fa il paradigma di una realtà minuta, semplice, spoglia e desolata. Con tocchi di luce, con superfici brune e rossi soffocati, dipinge un ritratto e una natura morta, un povero interno di casa e paesaggi e colline che si perdono nell’infinito. Pur nella varietà dei soggetti concepiti in stagioni diverse, Scorza mantiene unitari lo spiritus della materia e dello stile, senza fratture e senza crisi, se non quelle malinconiche dell’anima.