Undici vedute di Alessandria
“Undici vedute di Alessandria”, un titolo che
vuole unirsi idealmente alla tradizione del vedutismo del Settecento, del paesaggismo urbano ottocentesco, o di tutti quei momenti che nella storia dell’arte hanno dato risalto alla rappresentazione dello spazio antropico.
Comunicato stampa
…Città irreale,
sotto la nebbia bruna di un’alba di inverno.
Thomas S. Elliot
…Quale dopo il tramonto svanisce all’occidente,
subito avvolto dalla notte nera,
gemella della morte, che tutto sigilla nel riposo.
William Shakespeare
UNDICI VEDUTE DI ALESSANDRIA
testo critico di Carlo Pesce
Una certa atmosfera allucinata trasuda da queste opere.
Ci troviamo di fronte a alcuni lavori estremamente significativi, lavori che agiscono
profondamente sull’immagine – e sull’immaginario – di una città.
In queste pitture, Alessandria è un non luogo, potrebbe essere ovunque.
Il tempo si è frantumato in una serie di rivoli senza continuità, precipitato all’interno di
una concezione aionica nella quale si eternizza un momento.
La pittura di Fabrizio Cordara, Claudio Magrassi e Davide Minetti ha il pregio di
trasferire al futuro qualcosa che forse non è mai stato e che sicuramente tra un po’ non
sarà più.
Ho pensato di nominare questa rassegna “Undici vedute di Alessandria”, un titolo che
vuole unirsi idealmente alla tradizione del vedutismo del Settecento, del paesaggismo
urbano ottocentesco, o di tutti quei momenti che nella storia dell’arte hanno dato risalto
alla rappresentazione dello spazio antropico.
Se l’estetica moderna si rifiuta di assoggettare i suoi giudizi di valore a un’astratta
normativa dei “generi”, superando così il condizionamento del soggetto che dall’antichità
alla rilettura dei testi aristotelici giunge fino agli inizi del secolo XIX, l’analisi storica dei
fenomeni artistici, ci permette di affermare che ciò che è stato inteso come “veduta”
rientra a pieno titolo nello spirito di questa mostra.
L’Enciclopedia Universale dell’Arte non asserisce una omologazione tra il termine
vedutismo e paesaggio, quantunque ciò si sia verificato in molti repertori , anche di
notevole acume.
Per quanto vicini e simili i due generi pittorici possano sembrare, in realtà essi
obbediscono a esigenze diverse e, si potrebbe dire, antitetiche: nella sua più comune
accezione il paesaggio fu per molti, artisti e fruitori, pittura di evasione dal contingente,
richiamo a temi universali in presenza di una “natura” inquieta, o rasserenante, rifugio del
mito o sublime teatro delle umane passioni; all’opposto la veduta, agli inizi del Settecento,
descrizione e partecipazione di presenze giornaliere, di situazioni immediate e
documentarie, attraverso una valorizzazione di realtà fattuali sentite come parte
integrante di un complesso e moderno mondo spirituale cui l’artista partecipa
direttamente.
La città è un soggetto strano che si lega spesso all’emotività del percorrente.
Ci sono angoli che sfuggono, che si incontrano dopo migliaia di passi, luoghi noti a
alcuni e assolutamente sconosciuti a altri.
UNDICI VEDUTE DI ALESSANDRIA – testo critico di Carlo Pesce 2
Talvolta un’occhiata in un cortile apre prospettive completamente nuove sull’esistente,
si avanza con lo sguardo in un territorio sconosciuto, forse ostile, nel quale ci aspettiamo
di sentire l’eco di una domanda: cerca qualcuno?
La città è un luogo misterioso, un luogo nel quale si è osservati continuamente.
Occhi che ci spiano dalle finestre, oppure seduti ai tavolini dei bar del centro.
Non riusciamo a percepire nulla di tutto questo nella nostra qualità dubbiosa di
osservatori e osservati.
A volte fermarsi fa bene.
Allora sono le case, come in un film espressionista tedesco, a prendere vita, a
trasmettere la sensazione di un passato che stenta a prendere corpo.
Non esistono più le persone che le abitano, le uniche entità sono quei silenzi posati sugli
intonaci, sulle finestre, sui balconi, ragnatele polverose che aleggiano inquiete nell’aria
satura del tardo pomeriggio.
È un peccato che la pittura non possa restituire anche i suoni.
Un sottofondo costante, frammenti di voci dialoganti, di musiche, di motori, colpi e aliti
di vento e migliaia di altre epifanie. Ma questo appartiene a altre manifestazioni dell’arte
e, nello specifico, al giorno.
Cordara, Magrassi e Minetti, senza un preciso accordo, sentendo un’esigenza che
appartiene al loro essere, hanno scelto la notte, l’oscurità. In questo modo la luce naturale
è condizionata dalle luci artificiali.
La notte è buia.
Sembra una banalità, ma chi può avere la percezione della verità del buio ai nostri
tempi?
Un giorno, esattamente tra il 27 e il 28 settembre 2003, ci fu la notte.
E ci fu anche la paura, il ripiombare nello stato percettivo della cecità, la ricerca
affannosa di una torcia elettrica o di una candela, brancolando nelle profondità della
notte, procedendo a tentoni.
Non serbo un ricordo di quella notte.
Emerge una sensazione conficcata nello spirito come un dolore profondo: svegliarsi nel
buio e pensare di essere morto.
Mi domando se queste pitture siano fredde e distaccate. Se calchino un motivo
espressamente realista.
Mi domando se possano rientrare nell’ambito della cosiddetta “estetica
dell’impassibilità”, prendendo a prestito un’efficace definizione relativa a una certa
tipologia fotografica.
Bisogna tenere a mente la monumentalità dei luoghi rappresentati e metterla in
relazione all’apparente distacco emotivo e al controllo da parte dell’artista.
Adottare un’estetica dell’impassibilità sposta l’arte al di fuori del sentimentale e del
soggettivo.
La pittura di Cordara, Magrassi e Minetti pone l’accento su una maniera di vedere al di
là di una prospettiva individuale.
Fabrizio Cordara compone uno spazio apparentemente dismesso.
Egli sembra non apprezzare il colore e predilige quell’attività segnica che consiste nella
delimitazione della forma. In fin dei conti egli nasce come architetto.
Piuttosto che vedute, i suoi quadri sono disegni di spazi urbani.
In un certo senso, tradendo anche il candore del disegno, con quell’armonia palesata tra
le ombre della notte, le sue vedute notturne si pongono in contrasto con la perfezione
della linea.
Possiamo pensare che quella di Cordara sia una pittura erudita, che affondi le sue radici
nel confronto con la geometria.
UNDICI VEDUTE DI ALESSANDRIA – testo critico di Carlo Pesce 3
I suoi lavori non sono frutto di intuizione, sembrano affermarsi come espansione dello
spazio, sembrano che essi possano dilatarsi ad infinitum, coprendo intere distese
planetarie, presentando vie di fuga plurime e, nello stesso tempo, deflagrazioni
claustrofobiche che esplodono sulla tela risucchiando all’interno chi osserva…
Claudio Magrassi colpisce per il suo modo di “sporcare” ciò che osserva.
Non si tratta ovviamente di qualcosa di negativo, perché il suo lavoro prevede
l’allargamento sulla tela di una patina omogenea che dà una concretezza materica ai suoi
luoghi.
La sua veduta, fortemente contemporanea nello spirito estetico, porta al centro della
rappresentazione uno spazio che sembra completamente deprivato di anima, ma che vive
una propria spiritualità in quanto sedimentazione di frammenti di memorie, ricordi
personali dell’autore che danno origine alle soluzioni vedutistiche adottate.
È un luogo oscuro, nel quale si nasconde qualcosa di ineffabile, appunto una memoria
che si confonde assieme a quella di migliaia di altre persone che hanno contribuito a
creare l’anima dei luoghi.
La sua veduta è da intendere come una visione che proietta nel presente un futuro
possibile.
Nella sua città ci sono componenti geometriche incombenti, pronte a sostituirsi allo
spazio, modificandolo continuamente.
È una città simulacro, un luogo nel quale esiste soltanto una profonda solitudine.
È il luogo del “dopo”.
Magrassi ricerca scientemente qualcosa che possa generare inquietudine, legando un
gesto privo di incertezza a una lezione che proviene dall’antico.
Egli si ispira all’estetica di spazi urbani esistenti, piazzali, stazioni, vie illuminate, con le
loro linee e le loro curve.
La rottura della monotonia rettilinea della maggior parte degli edifici dà più dinamismo
e complessità all’immagine.
Davide Minetti compie un viaggio nella notte.
Egli si lascia trasportare dalle vie immerse in un’atmosfera straniante.
Sono luoghi che di giorno vengono abitualmente percorsi da innumerevoli figuranti, ma
che di notte si palesano coperte da un insolito velo ectoplasmatico.
Il buio avvolge anche le poche luci che balzano silenziose sull’asfalto, confondendole,
rendendole improbabili.
Non esiste nulla, al di là della presenza dell’artista, acquattato dietro ai suoi occhi, che
documenta un frammento di realtà.
I suoi spazi sono regolati da quell’ineffabilità tipica della penombra.
Per questo i suoi lavori sembrano giacere in quell’attimo che precede la conclusione.
È un non finito che riporta a quelle forma romantica che efficacemente in tedesco è
definita streben, cioè il tentativo di muoversi verso qualcosa di alto e sublime.
I quadri di Minetti trasmettono un senso di vertigine, di caduta, è come se osservassimo
il mondo con gli occhi di una falena che si lancia verso la luce senza sapere a che cosa
andrà incontro.
Perché la notte?
È una domanda che continua a rimbalzarmi nella testa.
Mi vengono in mente alcune pagine di Joseph Roth, quando descrive la breve
passeggiata notturna per le vie di Vienna di Carl Joseph Trotta e del pittore Moser.
Che cosa vedeva l’artista?
Che disegni c’erano nella cartella che portava con sé?
Vienna, in quel momento, non aveva più una precisa connotazione geografica, e forse, in
quella cartella c’era una bozza delle undici vedute di Alessandria.