Michelangelo Galliani – Qvacet
In questa mostra, allo Studio Vigato di Bergamo, Michelangelo Galliani porta in scena un nuovo e affascinante tema :il velo.
Comunicato stampa
In questa mostra, allo Studio Vigato di Bergamo, Michelangelo Galliani porta in scena un nuovo e affascinante tema :il velo. Vediamo un gruppo di
opere, in marmo di Carrara, in cui i rigonfiamenti, le protuberanze, le velature, le pieghe, i panneggi, non evocano tanto una composizione che potremmo comunque conoscere, quanto delle forze magiche e primitive, che l’artista ha scoperto nell’atto di creare la particolare costellazione di immagini, composta di volti e corpi, scolpiti con particolare perizia e sensibilità. Le sculture biancovestite - e il titolo Q V A C E T : in emiliano vuol
dire “copriti” - fanno riferimento al racconto solo per produrre una sensazione forte di irrazionalità, di mistero, o di disagio. Galliani presenta certo i frammenti di una storia, ma senza conferir loro l’ordine che darebbe allo spettatore di disporre di un accesso esatto, e verificabile, al significato dell’evento evocato dall’artista. L’autore frammenta con una certa violenza i veri protagonisti dell’insieme narrativo, accentuando la discontinuità e
la dissociazione che li muovono sulla superficie e nello spazio, e quindi sovverte la funzione logica tradizionale di questo tipo di scultura.
Comunque il velo che copre gli occhi ,la bocca la fronte ,o l’intero viso, dei personaggi, prevalentemente femminili, evoca la dissimulazione dei sentimenti segreti, quindi lo svelamento è una rivelazione, una conoscenza, un’iniziazione, alla spiritualità della luce. Il velo può essere intermediario per accedere alla conoscenza: esso filtra infatti la luce per renderla percepibile. Mosè velò il proprio volto per parlare al popolo ebraico. Non è Dio che porta un velo, sono le creature che egli ha velato a portarlo.
Le sculture di Galliani, o meglio sopra tutto le teste, si raccolgono in se stesse nella forza concentrata di una massa plastica nella quale si
addensano fortissime energie di tensione. Ne sorge uno spirito assorto e doloroso, un senso di tragedia che si lega alla nostra condizione
contemporanea. L’anatomia studiatissima dei volti o dei corpi non risponde a preoccupazioni di natura accademica, ma è un mezzo tre gli altri
capace di accentuare la vita plastica della massa. Il contrasto tra il “finitissimo” delle parti scoperte e il “non finito” dei tagli strutturali delle sculture, generano un senso di indefinito spaziale: i volti sembrano emergere da abissali e cupe lontananze, quasi che un meditativo torpore le trattenesse dal darsi alla vita attiva.
In effetti le “figure” che vediamo si presentano come identità nascoste, ma lentamente in cammino: scolpite e quasi congelate dalla luce. Si trovano
le opere fasciate da stoffe che, nel momento stesso in cui l’autore ne vela i lineamenti e ne imprigiona le espressioni, ne svela aspetti nascosti, come se fosse la superficie che scava nel profondo dei loro esseri. Ma ecco che qui, avviluppate in un tessuto, fremente sotto la luce, queste immagini si essenzializzano in una cifra depurata, come sotto una veste che paradossalmente, denudi e sveli la cristallografia del loro transitare, geroglifico simbolico del nostro vivere attuale, messo a nudo dalla nostra perdita di identità, o di una identità stereotipata. L’angoscia che pervade
queste immagini è l’ansia del soggetto reificato, che si mette in scena e dà vita a un teatro di crisalidi in cui esso stesso si fonde alle cose. Queste immagini che si ripetono diventano, sotto certi aspetti, invisibili, secondo il perverso meccanismo di quella visibilità odierna talmente saturata che, secondo Paul Virilio, finisce per tradursi in un’arte dell’ accecamento. Presentare in questo modo le sculture, come fa Galliani, ritualizzare le loro posture, mettere in posa i loro spossamenti corporali, può allora significare la volontà di dare una scossa al nostro accumulo di abitudini, a questa nostra paralisi di senso, o anestesia dei sentimenti.
Certo l’alfabeto dello sguardo, le evidenze fisiognomiche si volatizzano: i tratti umani sono disseccati, insettificati, ritratti nel vuoto guscio dei loro simulacri, feticci di se stessi.
Questi personaggi colti nella loro esclusione dalla vita carne del mondo, resi estranei al trasparente interfacciarsi delle occhiate - sono bendate le finestre dell’anima, e panneggiato lo specchio del cuore - diventano ricettacoli di ordinaria incomunicazione, ma accolgono anche un raggio di catarsi. Potremmo dire , con Mario Perniola, che in questo mondo post-storico, neo-oscurantista, cripto-criminale, quale è quello in cui viviamo, diventa importante riandare al concetto di segreto, che rimanda all’esistenza di una verità semplice: il cammino per giungere ad essa può essere lungo, complicato e tortuoso, ma esso si annulla nel momento in cui compare la verità. L’immagine del velo, o della piega, ci propone l’immagine di un mondo non vuoto, ma pieno, nel quale c’è un massimo di materia anche in uno spazio minimo, tutto ciò che esiste è sempre meglio di nulla.
L’enigma che portano a galla queste sculture trae la sua forza dalla forza interrogativa che suscitano.