Gian Marco Montesano – Itinerario storico
Galleria Oltremare ospiterà una bellissima e significativa retrospettiva del lavoro di Montesano: saranno presenti opere su tela, su tavola e terrecotte.
Comunicato stampa
Gian Marco Montesano
Itinerario storico
Dal 14 dicembre 2011 fino al 10 febbraio 2012
Galleria Oltremare ospiterà una bellissima e significativa retrospettiva del lavoro di Montesano: saranno presenti opere su tela, su tavola e terrecotte
Come di consueto per la nostra galleria, la mostra sarà visibile anche online all' indirizzo :
http://www.galleriaoltremare.it/eventi.php
oppure visitando nel nostro sito, seguendo la freccia dalla pagina EVENTI
Nella pagina EVENTI del sito inoltre, è a disposizione un interessantissimo
video- documentario diviso in 4 sezioni, dove si mescolano interviste,dipinti,foto,luoghi, emozioni che raccontano la vita di un grande maestro-Gian Marco Montesano.
”La pittura non è morta per una questione di moda, di gusti, o per chissà quale altra ragione, ma perché le è stato tolto il terreno sotto i piedi, è venuto meno quel mondo e tutto il sistema dei valori che esprimeva, che lo giustificava: il mondo dei grandi postulati, dei grandi progetti, dell’utopia che aveva generato le avanguardie, sia politiche che estetiche.”
Gian Marco Montesano
" Non faccio che ricostruire, fotogramma per fotogramma, i passaggi dello sprofondamento del mondo dentro la propria immagine. Poichè per esser chiari e politicamente "scorretti", dire "mondo" per me significa dire Occidente, ricostruisco i passaggi dello sprofondamento dell'Occidente dentro le immagini dell'Occidente"
Gian Marco Montesano
Gian Marco Montesano è uno dei più famosi artisti italiani, ed è caposcuola di una pittura figurativa asciutta, che evita spesso anche ogni sentimentalismo o emozione legata al colore. I suoi quadri in bianco e nero sono un'inesauribile galleria d'immagini, quasi i fotogrammi di quel "Cinema Italia" che lui ha sempre sostenuto di voler raccontare. I suoi quadri legati alla Storia, ai grandi dittatori, alle ideologie sconfitte dalla "fine della storia" della globalizzazione e del capitalismo come unico sistema economico del pianeta, è qualcosa di unico nel panorama mondiale. La sua scelta di affrontare, seppur con ironia, le catastrofi e nel contempo le piccole storie che hanno illuminato il Novecento, rifiuta ogni nostalgia, ma sa dare un senso e un valore al tempo passato.
Nell'opera di Montesano, come nelle vecchie cartoline e nei vecchi calendari si evoca il “secolo breve” con immagini di Lenin, Stalin, Hitler e Mussolini, attrici famose e atleti virili, pin up, teneri bambini, marziali balilla, santi e militari.
BIOGRAFIA
Gian Marco Montesano nasce a Torino nel 1949.
La sua formazione è a Torino, nel Seminario salesiano di Valdocco.
L'iniziazione alla pittura di Montesano avviene mentre ancora è seminarista a Valdocco. Da qui la scelta del titolo, Andarera, una sorta di "A rebours", un viaggio all'indietro nei luoghi della memoria e dell'infanzia.
All'inizio degli anni Settanta le sue prime opere sono, infatti, riproduzioni di Madonne e di quelle immagini sacre, ricordi distribuiti ai fedeli nei santuari e durante gli esercizi spirituali. Montesano le ingrandisce e le rivisita in chiave postmoderna rifacendosi alla bella tradizione della pittura popolare ma anche rivestendole di significati concettuali e teorici.
Non segue la vocazione ecclesiastica perché più forte è la predisposizione artistica ed intellettuale che lo portano negli anni Settanta prima a Bologna e poi a Parigi, dove ha modo di conoscere tra gli altri Gilles Deleuze e Jean Baudrillard.
Diversi sono i dipinti dedicati a Torino e al ricordo di suo padre che lavorava come "eccentrico" nel mondo dell'avanspettacolo: emblematico il quadro Torino anno zero del 1989, immagine dell'artista bambino per mano a spasso con papà.
Dalla fine degli anni Ottanta e per tutti gli anni Novanta, Montesano viene inserito nell'ambito del cosiddetto Medialismo, la corrente di revival pittorico, di matrice neopop e fumettista, della quale è stato invece un precursore assoluto.
Da questo contesto però si differenzia molto, perché indagando la storia e il passato Montesano rilegge gli anni drammatici e cruciali della formazione dell'Europa nel corso del secolo XX fino al momento della sua crisi.
Accanto a queste ci sono anche immagini dolcissime di bambini, seducenti ritratti femminili, vasti paesaggi di gusto romantico, vedute urbane di genere cinematografico, che Montesano dipinge con quel suo inconfondibile stile neorealista, anzi post-realista.
Oltre ad essere affermato pittore, Montesano è un appassionato regista teatrale. La sua Compagnia Florian, con sede a Pescara, ha presentato spettacoli a Parigi, in Ungheria e in tutta Italia.
Nel 1993 è alla Biennale di Venezia.
Nel 2003 e poi di nuovo nel 2005 è invitato alla Biennale di Praga.
Tra il 2006 e il 2007 l'Assessorato alla Cultura del Comune di Pietrasanta ha promosso la mostra Berlino 1936, curata da Valerio Dehò, nelle sale del Chiostro di Sant'Agostino a Pietrasanta (Lucca).
Nel 2009 partecipa per la seconda volta alla Biennale di Venezia.
TESTI CRITICI
"L'intoccabile" di Achille Bonito Oliva
"La mia famiglia è una famiglia esplosa con un padre che lavorava nello spettacolo, nel varietà, ed io sono stato un bambino scolasticamente differenziato; per un certo periodo non potevo frequentare le scuole normali perché sfioravo l'autismo. Non volevo essere toccato, non toccavo nessuno, ero incapace di apprendere in quanto incapace di stabilire relazioni".
Gian Marco Montesano con questa affermazione dichiara esplicitamente le motivazioni della sua pittura, la strategia di un artista che sviluppa l'onnipotenza di un immaginario infantile autosufficiente e per questo non accudibile ed assistito dall'ingombrante cura dell'universo adulto. Gli adulti, si sa, utilizzano volontariamente e involontariamente nel loro rapporto in scala con l'infanzia, corporale, economico e organizzativo, l'ingombro di una presenza oppressiva e gerarchica.
Montesano, nella sua dichiarata incapacità di stabilire relazioni, prende fin da piccolo la decisione di non accettare oppressione, invasione ed assistenza. Fin da piccolo assume la dignità d'artista, liberamente chiuso nel territorio di un linguaggio interamente manovrabile e sovranamente suddito al suo volere, impulso e decisione formale.
Nel campo adulto della pittura tale decisione si esplica in un linguaggio figurativo, in una forma sobriamente cromatica secondo un impulso teso alla rappresentazione di un universo esplicitamente distanziato nel tempo e nello spazio.
Il distanziamento iconografico tende a creare un raccordo fra i due diversi stati della sua sensibilità adulta e infantile, sempre sostenuti dal bisogno di preservarsi e di preservare l'immagine da ogni sistema di relazione.
Allontanare nel tempo e nello spazio le sue figure significa garantire ad esse intoccabilità e rispetto della fragilità, utilizzare dunque la pittura come luogo depurato da ogni ingombro e sterilizzato mediante la bidimensionalità della tela.
Montesano conosce la regola prospettica, la gerarchia spaziale della profondità illusoria sviluppatasi nell'arte occidentale, ma la utilizza in maniera minimale, citazione di una memoria culturale che non può identificarsi col nostro presente. L'artista vive il dramma storico del manierismo, soffre it pathos della distanza, e l'impossibilità di identificarsi con la sicurezza della profondità prospettica in tutti i suoi significati profondi.
Per questo egli l'adopera e ne verifica continuamente l'inaccessibilità, l'impossibile identificazione con una rappresentazione consolatoria e materna.
Montesano decide da bambino di essere orfano dei genitori, di non voler avere relazioni ed essere toccato e nemmeno accarezzato. Da adulto assume la pittura figurativa orfana di ogni convinzione, compresa quella della profondità prospettica.
La prospettiva presuppone peso e statura, corporale, sociale e politica, teatro di azioni di conquista ed esplorazione.
Montesano costruisce invece accenni spaziali in cui colloca figure adulte e infantili, maschili e femminili, fuori da ogni empito di possesso. In questo senso le figure non chiedono nulla, non potendo e volendo assicurarsi relazioni e contatti, fisici e psicologici. Questo universo iconografico non è frutto di una patetica regressione verso una mitica situazione infantile, piuttosto la costruzione faticosamente elaborata da parte di un adulto di una condizione possibile. L'arte serve proprio a potenziare l'immaginario individuale e dimostrare come sia possibile nel tempo rendere concreto l'impulso infantile teso verso la dignità di una solitudine autosufficiente. L'autosufficienza del linguaggio fomenta l'onnipotenza di Montesano che presenta una sequenza di opere tutte sostenute da toni cromatici smorzati.
Nella sua pittura l'artista tende sempre ad evidenziare il vuoto, ad evitare la retorica del pieno, segno e colore. Egli vuole evitare ogni autorità affermativa dell'arte ed evidenziare invece il percorso doloroso della conoscenza e della contemplazione. La pittura stabilisce un processo iniziatico che manifesta attraverso la rappresentazione la dolorosa presenza della distanza. Essa stoicamente indica la strada dell'inconciliabilità contro la demagogia di una comunicazione semplicemente emotiva.
Filosofica è la figurazione di Montesano che non vuole utilizzare anestesie estetiche ma piuttosto un linguaggio capace di creare visione e percorribilità.
La visione è data dall'immagine descritta nell'opera che presenta il tema della distanza quasi in termini didascalici, nella chiarezza descrittiva del campo visivo. Qui è possibile una percorribilità dello sguardo che può stabilire relazioni mobili, ma anche riconoscere quanto le potenzialità di raccordo non sono suggerite dall'immagine interna dell'opera.
Infatti le figure paradossalmente hanno la dignitosa solitudine del ready made duchampiano, una presentazione che non trova spiegazione od omologazione con l'impianto narrativo.
Non c'è narrazione perché non c'è ricostruzione alcuna di un teatro della
memoria. Esiste invece l'impulso a costruire un universo figurativo, da una parte animato dalla riconoscibilità stilistica di un'epoca e dall'altra reso inanimato dalla coscienza filosofica dell'artista che non lascia false speranze di contatto alle sue figure. Montesano utilizza con estremo sentimento il procedimento del readymade, introiettandolo interamente nella sua pittura che rifiuta conciliazione interna e comunicazione esterna. L'inconciliabilità non produce comunque atmosfere metafisiche, profondità misteriose o drammi della memoria. Se c'è distanza, ciò significa non soltanto dolore ma anche coscienza.
Come nella pittura del grande manierismo storico, qui tutto si risolve fuori da ogni psicologia. La pittura è un sintomo stilistico che realizza sé stesso dentro l'ambito del linguaggio. Questo è separato dalla vita ed è inutile ogni concorrenza con essa. Meglio invece costruire un universo iconografico autosufficiente in cui le figure non danno segni di disadattamento rispetto ad un altrove.
Un hic et nunc abita la pittura di Montesano che sembra simulare un procedimento legato alla memoria, invece vuole formulare I'immagine di un presente invalicabile sia per il passato che per il futuro, un recinto seppure trasparente come un cristallo infrangibile.
Da qui scaturisce in Montesano una struggente condizione di melanconia, la descrizione di una distanza che evidentemente soltanto il desiderio dell'assoluto può evidenziare. La limpidezza dell'immagine denota tale struggenza, la correttezza di un sentire che non si lascia impedire nemmeno dalla coscienza dell'impossibilità e dall'impulso verso l'isolamento.
La memoria in questo caso non è un dispositivo che vuole innescare un processo regressivo dal vivo. È usata anch'essa come convenzione, oggetto riconosciuto dall'immaginario collettivo e riconoscibile per i suoi travestimenti stilistici. La memoria è dunque un ready-made, formalmente spiazzato come passato nel presente, ma sostanzialmente immobilizzata in una rappresentazione ferma e senza movimento. Montesano produce alla fine una pittura volutamente orfana, che non chiede genitori e non vuole stabilire conflittualità o emulazione con la vita. Piuttosto utilizza l'arte secondo il dettato di Heidegger: "Il terribile è già accaduto".
Dunque non è possibile elaborare alcuna riparazione o assegnare all'arte la funzione elaborativa del lutto. Montesano ci consegna una sequenza di opere in cui dichiara una nuova forma di amore che non consiste nello stordimento o nella confusione tra arte e vita, ma nella dichiarazione iconograficamente corretta di una condizione di intoccabilità che anche gli adulti ora possono comprendere e che lui ha dovuto pazientemente custodire nel suo immaginario infantile e può ora finalmente accudire nelle forme dell'arte.
Achille Bonito Oliva
da Gian Marco Mostesano "Se da lontano..."
Mazzoli Editore 1994
LA FINE DELLE STORIE di VALERIO DEHÒ
"Il cristianesimo è una religione di storici.
Sono convinto che noi facciamo della storia perché siamo cristiani."
Marc Bloch
Gian Marco Montesano dipinge le storie della Storia. E il destino delle storie è quello di durare e dissolversi perché possano diventare racconti e se ne possano creare altre. Nel suo lavoro è molto forte la componente religiosa che si mescola e sovrappone a quella politica, engagé, in cui il cattolicesimo dell'autore da una parte e la sua militanza nell'Autonomia dall'altra, trovano rifugio alle intemperie del politically correct. Montesano non ha mai nascosto il suo passato, anzi lo ha disseminato nel suo lavoro. Il suo singolare sincretismo culturale raccoglie nei quadri i frammenti di un romanzo sentimentale e ideologico europeo che coinvolge tutti con un linguaggio leggero come una nuance e definitivo come un addio. Proprio in questo momento l'Europa cristiana si unisce, mentre la sua identità sfuma tra le razze e le fedi che la invadono, portando una globalizzazione disperata che esaspera le differenze e le diffidenze.
La storia e la religione diventano paradigmi di un'attività artistica centrale nell'esperienza contemporanea, distante dalla noia e dalla vaghezza concettuale. Il cristianesimo del resto ha favorito I'abitudine a pensare in termini storici. Da Cristo in poi tutto è iniziato e terminerà quando il Regno di Dio avrà trionfato sull'indifferenza, sull'ignoranza. Ha scritto Georges Duby: "Vi è una maniera cristiana di pensare che è la storia. La scienza storica non è forse occidentale? Che cos'è la storia in Cina, nelle Indie, nell'Africa nera? L' Islam ha avuto mirabili geografi, ma gli storici?".
La storia è quindi per noi abitanti d'Europa un modo di essere, strettamente connesso alla religione che domina da duemila anni. Nella stessa storia dell'arte argomenti religiosi e storici sono diventati generi, hanno sviluppato specializzazioni, botteghe e scuole. Basti pensare a quanti "santini" sia riuscita a produrre la Controriforma. Montesano negli anni Settanta alterna opere dedicate ai grandi eventi storici come "Germania requiem" o "L'armeé rouge a Berlin" (1975) a opere ispirate all'iconografia religiosa più trita e ovvia, a quelle illustrazioni da catechismo o da immaginetta votiva in cui la tradizione alta della pittura si è tramutata nella convenzione allo scopo di educare le masse. Due dei suoi principali argomenti di discorso nascono quasi in parallelo. L'attenzione dell'artista si dirige da sempre verso le narrazioni, verso le possibilità di comunicazione delle immagini che vivono sugli eventi per riprodurne la memoria. Ci troviamo all'interno di una foresta di simulacri, la strada viene segnata da target visivi che recano tracce di emotiva distanza da ciò che è accaduto, da ciò che potrebbe accadere.
La sfera religiosa appartiene alla formazione dell'artista, la sua lucidità gli ha consentito di ridurla ad un'iconografia limpida, composta, volutamente esangue. In un quadro come "vale, o valde decora" (1978) l'annunciazione avviene direttamente all'interno di uno spazio sacro, probabilmente una chiesa, la Madonna è genuflessa ad un inginocchiatoio su cui è appoggiato un messale, l'Angelo reca in mano un lilium simbolo di verginità, la Colomba-Spirito Santo illumina dall'alto il capo della Madre di Dio con un potente raggio luminoso. Il pavimento a losanghe bianche e nere riprende l'artificio quattrocentesco di amplificazione dell'effetto prospettico, ma lo spazio in questo caso è troppo angusto, la visione è ravvicinata. Montesano è attento a sintetizzare nell'ambiente ecclesiale altri spazi, altre storie. Tutto è immoto perché è già accaduto tante volte, non ci troviamo di fronte a un evento, a un mistero, ma a un'immagine. Curioso è notare come l'eccesso simbolico venga sottolineato da una pianta di gigli che fuoriesce in basso forse dal pavimento, o forse si tratta del dono distratto di una devota riconoscente. In un opera dello stesso anno come "Die Krippenspiel" (1978) invece siamo di fronte ad un effetto cartolina che inquieta non poco. L'angioletto in abito da Mago Merlino rende omaggio ad un copiosamente crinito bambinello, invero già poderosamente sviluppato, alla faccia della biologia. Le stelline in cielo hanno un rigoroso alone di zucchero a velo e la stella cometa brilla all'interno della capanna come un neon nell'androne di un condominio.
Anche i sacri cuori pulsanti nelle diverse versioni del Sacro cuore dell'arte pongono alcuni problemi di sincerità. L'indicibilità riguarda l'assegnazione a loro di un significato di esaltazione-accettazione di valori o piuttosto quello di elaborare un mot d'esprit visuale. In questi caso l'esercizio di simulazione trova la sua più ampia indeterminazione.
Helena Kontova mettendo in parallelo la pittura e le fotografie pressoché sincroniche di artisti americani come Robert Longo, David Salle e Cindy Sherman con l'opera di Gian Marco Montesano ha scritto:
"Mentre gli artisti amercani si formavano all'analisi oggettiva e distaccata della rappresentazione, Montesano aggiungeva qualcosa di più personale, scegliendo temi e luoghi familiari come le immagini dei bambini e i loro genitori, i bouquet di fiori e i luoghi sacri. In questo modo ad essere messa in primo piano era una differenza: lo scollamento che esiste tra i nostri desideri e quell'omologazione dei sentimenti imposta da una società dove l'immagine conta più del contenuto, dove i sentimenti che una volta erano portatori dei significati si sono persi tra i simulacri di loro stessi". (1)
Il problema della simulazione è centrale in Montesano. L'approssimazione a un grado zero della rappresentazione appare da un lato adesione incondizionata al mondo delle immagini, dall'altro il paradosso di una presa di distanza critica. Riprodurre il riprodotto diventa un rovesciamento del cannocchiale, il capovolgimento della camera obscura. Nessuna naturalezza, nessuna necessità e, soprattutto, nessun appel à l'ordre. Montesano ha sempre dipinto, ma è stato tra i primi a comprendere che la pittura poteva tornare ad essere un linguaggio contemporaneo dandosi però dei paradigmi concettuali e rifiutando il neo-espressionismo delle transavanguardie. La prima volta come tragedia la seconda come parodia, che guarda caso è il titolo di un suo quadro del 1991 molto noto. La lezione della storia, non solo di quella artistica, consiste in questo. L'indifferenza diventa l'unica differenza possibile, l'unica eredità che si può accettare da un secolo che ha prodotto tutto e il suo contrario, alla ricerca di una stabilità forse impossibile. Questo non esclude automaticamente l'aspetto emotivo dell'opera, ma lo lega strettamente a quello cognitivo e razionale. (2)
Ma si può dire anche dell'altro. Per esempio che proprio questo distacco, questa freddezza, così inconsueta nell'arte italiana, sono le condizioni per celebrare in festa l'ennesima morte della pittura. In fondo quello che serve e quello che ci possiamo aspettare dall'arte è che funzioni come un laboratorio per esperienze estreme, che riesca nel suo scopo di simulare tutte le catastrofi e apocalissi possibili per esorcizzarle, per andare avanti a ricercare, per continuare a vedere sulla linea dell'orizzonte "l'isola del giorno prima".
La storia diventa un récit collettivo, ma sono gli individui a farne esperienza, che la raccolgono in un'immagine, in una canzone, in un racconto drammaturgico, perfino in un quadro. L'arte per Montesano partecipa alla messa in scena della storia, il suo potere di analisi è pari alla forza di persuasione che le sue ragioni sono inutili, perfino futili. Ma alla fine questo "teatro di crudeltà" in cui tutto sembra insostenibilmente leggero riesce a coniugare quello che la storia non è mai riuscita a fare, a separare vincitori e vinti, a giudicare l'ironia degli eventi dai particolari, dai lapsus.
E qui non si parla di morte mediale. È vero come scrisse l'argentino Adolfo Bioy Casares ne L'invenzione di Morel, che "Morire vuol dire diventare un'immagine", però non è importante soltanto il dato di fatto che la società dello spettacolo predilige lo scambio simbolico (Baudrillard) per cui non ci resta che aggirarci tra simulacri di una realtà che sfugge come sabbia tra le dita. È vero che la simbolizzazione nella nostra società sta raggiungendo livelli difficilmente ipotizzabili soltanto vent'anni fa ma è anche vero che noi con questi simulacri abbiamo imparato a vivere e comunicare, perfino a conoscere. L'artificialità è diventata una dimensione cosciente e razionale, simulare non ha più le connotazioni negative che si potevano avere nel secolo scorso. La sociologia dà troppe risposte, la Storia non è percepibile, esistono tante storie la cui somma è uguale a zero. "Una religione ci propone l'esposizione della Verità: ma non basta. La Verità si incarna in una spiegazione della Storia. Ogni principio metafisico finge da grande motore che permette l'avvio e corona il termine della Storia Umana. Cosa accade quando la Storia si fa inesistente, si annulla a favore dei nostri desideri, assume un assetto volatile, oscuro e luminoso allo stesso tempo?". (3)
Valerio Dehò
da "montesano"
Gain Carlo Politi Editore 1998
NOTE
1 Helena Kontova,"Drammatizzando l'indifferenza", in Bollettino, Galleria il Milione, n.164, Milano 1996.
2 "Due problemi continuano a starci di fronte. Primo, nonostante la nostra convinzione che l'esperienza estetica sia in qualche modo emotiva piuttosto che cognitiva, la vacuità delle formulazioni in termini di emozioni prodotte o attese ci ha lasciati incapaci di dire in quale modo. Secondo, nonostante abbiamo riconosciuto che l'emozione nell'esperienza estetica tende ad essere snaturata e spesso anche rovesciata, la palese futilità delle spiegazioni in termini di una secrezione speciale delle ghiandole estetiche ci lascia incapaci di dire perché. Forse la risposta alla seconda domanda si troverà rispondendo alla prima; forse l'emozione nell'esperienza estetica opera come opera a causa del ruolo che essa svolge". (Nelson Goodman, I linguaggi dell'arte, Est, Milano, 1998, p. 213.`
3 Luther Blissett, Net.gener@tion, Mondadori, Milano 1996, p. 132.