Said Atabekov – The Dream of Genghis Khan
Da anni noto sulla scena artistica internazionale per il suo mix linguistico di segni etnografici, memorie dell’avanguardia russa e interferenze globali post-sovietiche, il lavoro di Said Atabekov, più che per il materiale che mostra, si impone per l’idea di “storicità”che esso informa.
Comunicato stampa
A distanza di due anni dalla sua prima personale italiana, Said Atabekov ritorna negli spazi della Galleria Impronte di Milano con un nuovo progetto espositivo. Reduce dalla Biennale di Venezia e dalla mostra Ostalgia presso il New Museum di New York, Atabekov presenta a Milano tre progetti tra i più importanti del suo percorso artistico. La mostra, che si apre il 15 dicembre, raccoglie lavori che vanno dal 2004 ad oggi sotto il titolo comune The Dream of Genghis Khan – una delle espressioni più ricorrenti dell’artista kazako. Ma a quale “sogno” Atabekov fa riferimento? Al sogno di che cosa?
Da anni noto sulla scena artistica internazionale per il suo mix linguistico di segni etnografici, memorie dell’avanguardia russa e interferenze globali post-sovietiche, il lavoro di Said Atabekov, più che per il materiale che mostra, si impone per l’idea di “storicità”che esso informa. O meglio, il tempo in Atabekov coincide tanto con la materia quanto con lo strumento stesso che la plasma: è l’apparizione di qualcosa ma anche, simultaneamente, il dispositivo che la fa apparire. Nelle sue opere c’è sempre uno stato del tempo come campo di differenze. La distinzione tra realtà e finzione ormai non è più importante, piuttosto una linea di demarcazione divide l’attuale dal virtuale, il movimento dall’immobilità, l’interruzione dalla continuità, la direzionalità dalla sua assenza, la foto dal video, l’oggetto dal rituale performativo. E sono tali sdoppiamenti - nel tempo e del tempo - a coesistere all’interno di una stessa immagine.
Prendiamo due degli ultimi progetti di Atabekov, presenti in mostra. L’opera Farewell of Slavianka (2011) è costituita da un tappeto di feltro fatto a mano e dalla documentazione del rituale messo in atto per produrlo. Gli attori del rito sono gli stessi familiari dell’artista e un vincolo parentale è ancora l’occasione che dà origine all’azione. Questa, nella sua arcaicità religiosa, fa riferimento però ad un passato relativamente recente. Chiamando in causa un fatto accaduto nella Seconda Guerra Mondiale, cerca di restituire la possibilità a ciò che è stato. L’azione è semplice: una decina di anziane del villaggio è intenta a stendere e bagnare la lana del tappeto di feltro che sarà compito di cinque ragazzi pressare,
arrotolare e trasportare in un viaggio nella steppa, sulle tracce di un prozio scomparso durante le campagne belliche del 1943. Le foto di documentazione hanno invece un carattere potente: bianco e nero con asse dell’inquadratura inclinato, punti di fuga obliqui, riprese zenitali, close up dal basso e continui richiami al foto-reportage uzbeko di Max Penson e alla discontinuità spazio-temporale di Rodčenko.
Sono proprio queste immagini che diventano la materia del foto-film Farewell of Slavianka, in cui la mobilità propria dello scorrimento si definisce attraverso la fissità dell’istante fotografato. In altri video Atabekov ha usato il ralenti come in un film del cinema muto (Walkman, 2005) oppure ha realizzato cicli fotografici quali Way to Rome (2007) simulando fasi di movimento. In questo progetto lo sforzo è invece quello di sdoppiare il tempo del racconto filmico in immagini frammentate, fermate, che rimandano ad un altro tempo: un passato fissato in documento, oppure presente nella contemporaneità ma come virtualità. Una nota marcia patriottica russa come traccia sonora non fa altro che trasformare queste riprese in memoria. La scomparsa di un antenato è dunque il segno di una perdita più generale, anzi della perdita come tale.
Dell’altro progetto presente in mostra, Korpeshe-Flags, fa parte anche un ciclo fotografico in cui il tradizionale cuscino delle iurte centro asiatiche - con la doppia funzione di coperta e materasso - è trasformato in bandiera nazionale occidentale. Lo spazio topografico e simbolico della scena è ancora una volta la steppa kazaka: il suo piatto e basso orizzonte desertico, l’assenza di tracce, il campo vuoto e aperto del cielo. In ogni foto una donna con fazzoletto in testa - frontalmente rispetto alla ripresa - alza il korpeshe all’altezza del cielo, mentre, al di sotto, il piano della steppa è ricoperto del rosso dei papaveri. Ogni tessuto porta i segni, di volta in volta, della bandiera canadese, di quella americana, norvegese e italiana, turca, svizzera e così via in una sequenza che sovrappone lo ‘spazio liscio’ originario a quello nuovo ‘striato’ - come avrebbero detto Deleuze e Guattari nella loro Nomadologia.
Il tessuto come segno dell’apparato di Stato si contrappone allo spazio infinito e illimitato in tutte le direzioni che è proprio della steppa. Il rettangolo chiuso della bandiera si impone sopra uno spazio aperto e decentrato per costituzione. Non solo ritroviamo qui un tempo del ‘prima’ (il rosso monocromo è pure un segno simbolico del passato) e del ‘dopo’, ma anche l’idea di mobilità tipica di uno spazio in variazione continua della cultura nomade rispetto al concetto di uno spazio sedentario, che assegna ruoli fissi per poter essere governato. Lo spazio liscio dell’origine risulta ormai uno spazio catturato tra l’ordito e la trama di uno spazio striato.
In Said Atabekov le maschere del passato non cessano di ritornare. Ma senza alcuna intenzione di restituire o assicurare una identità alle differenti individualità di ciò che è stato. Una culla (Besik) per neonato, il corredo dello sciamano, gli idoli arcaici in pietra, il feltro, il cumulo di korpeshe sopra il baule da viaggio, il kokpar quale gioco popolare dei cavalli, il Kyzyl Traktor, il kalashnikov, il ‘Quadrato nero su fondo Bianco’, i segni del tempo della collettivizzazione sovietica, la stella rossa, la bandiera americana, il logo delle Nazioni Unite, una Toyota, una barca arenata nel Lago d’Aral, etc, etc. C’è una sorta di carnevale del tempo che ogni volta Atabekov mette in scena.
Da un lato tutto ritorna come qualcosa di perduto, svuotato: tali sono le sue giacche tradizionali kazake rivestite dal camouflage militare quale fodera interna. Ma dall’altro lato rituali disinsabbiati, saperi non qualificati, conoscenze locali appena riapparse non smettono mai di attentare o scalfire ogni pretesa di unicità di un discorso assoluto, definitivo, dominante. In un video bellissimo dal titolo L’Arca di Noè (2004) - rigorosamente bianco/nero e rallentato - un bambino seduto a torso nudo sul bordo della steppa ha alcune visioni.
Nella prima vede passare se stesso tra le rovine di un passato islamico, nella seconda trascina via con la fune un derviscio con cappello a cono e bastone mentre un ragazzo e una donna lo stanno picchiando come fosse un impostore. Nell’ultima visione il bambino cerca di rimuovere con la fune un grosso elicottero militare russo rimasto abbandonato nel paesaggio come un oggetto ormai inutile e dimenticato. Non è forse il sogno di Genghis Khan quest’ambizione di potere che ha la pretesa di ridurre tutto ad un unico discorso, di spazzare al suolo quanto si è frapposto, di assoggettare ciò che ha fatto e continua a fare resistenza? E di ricominciare ogni volta di nuovo e da zero?
Marco Scotini
Said Atabekov è nato a Bes Terek, Uzbekistan, nel 1965. Vive a Shymkent, Kazakhstan.
Principali mostre selezionate dal 2005 :
2011 : 54th Venice Biennale, Central Asia Pavilion, Venice, Italy
Ostalgia, curated by Massimiliano Gioni, New Museum, New York, U.S.A.
4. Fotofestival The Eye is a Lonely hunter : images of humankind, Mannheim – Ludwigshafen- Heidelberg, Germany
Winner of the Prince Claus Fund , Amsterdam, Netherland
2010 : Rites without myths , gallery Impronte Contemporary Art, Milan, Italy
2009 : Lonely at the Top, curated by Viktor Misiano , Muhka Museum , Antwerp , Belgium
Son of the East , gallery Impronte Contemporary Art , Milano, Italy – solo show
Photoquai 2009 , Biennale des Images du monde, Paris , France
Changing Climate , Kunsthalle Wien, Austria
Scènes Centrales , LILLE-3000 , Lille, France
2008 Destination Asia – Flying over stereotypes , Gallery ELEMENTA, Dubai, UAE
Old/New Routes- A Selection of video Art from Central Asia, BizArt , Shanghai, China
2007 : 52st Venice Biennale , Central Asia Pavilion, Venice, Italy
Time of Storytellers , curated by Viktor Misiano , Kiasma Museum, Helsinki, Finland
Live Cinema , The return of the Image, Philadelphia Museum of Art, Philadelphia , USA
La Biennale de Montreal 2007, Montreal, Canada
Way to Rome , SCCA , Almaty, Kazakhstan
2006 : 10th Media Art Biennale Free waves, Los Angeles, USA
Contemporary Art from Central Asia, Ujasdovskii Castle, Warsaw, Poland
2005: 51st Venice Biennale , Central Asian Pavilion, Venice, Italy
9th Istanbul Biennial, Istanbul, Turkey
In the shadows of heroes, Bishkek, Kyrgyzstan
X Prague Quadrennial, Prague, Czech Republic .