Gaspare Sicula – Arlecchino e Garibaldi
In esposizione alcuni dipinti su pluriball del ciclo Arlecchino e il Monumento a Garibaldi.
Comunicato stampa
ARLECCHINO E GARIBALDI
Siamo più o meno a settecento anni dalla Divina Commedia, a quattrocento da Amleto e Don Chisciotte, a duecento da Frankenstein, a centocinquanta dall’Unità d’Italia, a cent’anni esatti dalla morte di Bram Stoker, a venti dal mio Monumento a Garibaldi, a qualche mese dai dipinti che ho dedicato ad Arlecchino. Tante sono le cose da riscoprire, le letture da rinverdire, le tracce che queste hanno lasciato da aggiornare e da interpretare nel corretto verso, nell’inedita visione che il passare del tempo dà. E ancora, gli avvenimenti da festeggiare, le ricorrenze da rimembrare, gli anniversari e le date da menzionare, le opere da spolverare; le combinazioni di fatti, numeri e storie di uomini e cose da studiare. All’inizio di quest’anno da “fine del mondo” espongo alla 11Dreams Art Gallery la storia mia di un anno, di venti anni; e, di più secoli, quella che riguarda non solo me e il mio rapporto con essi ma la creatività, più che mai vivente, di chi oggi è nulla di più di un grano di niente.
L’anno scorso ho disegnato, su carta e cartoncino, Feliscatus a più riprese. A olio ho poi dipinto, per alcuni mesi, Arlecchino. In questi quadri, che sono tutti su pluriball, Arlecchino ha il profilo della penisola iberica, la maschera e i denti di Dracula, gli occhi e la nuca di Frankenstein, l’immaginazione e la follia di Don Chisciotte, i dubbi e la malinconia di Amleto, le ali e la scaltrezza di Hermes, le mani di Alichino, il coraggio di Ercole, la longevità di Picasso.
E’ un monumento poetico e colorato, senza bronzo patinato ma con un uso giocoso di mezzi e materie varie, quello che tra il 1990 e il ’91 ho dedicato a Giuseppe Garibaldi. Un’antologia di forme e periodi che vanno dai dondoli alle arance ai drappi; di modi (dal disegno alla pittura alla fotografia alla scultura). Ci sono, appunto, un altorilievo in terracotta, una matita su tela e un olio su cartone, le sembianze dei quali sono tratte dal conosciutissimo dagherrotipo; cinque arance bianche fatte col das, un cavalluccio a dondolo di legno e segatura agglomerata e, sopra un ceppo, due foto incollate, su sagoma di compensato, del Garibaldi di Gerolamo Induno, da una parte a colori, dall’altra in bianco e nero. Per un personaggio d’azione ci voleva una camicia d’azione, da ciò il dripping multicolore su di essa.
Certamente non è una forma immobile, piena di retorica ottocentesca come quelle che oggi si trovano sistemate in tante piazze d’Italia e che sono più che altro ricoveri di piccioni e depositi di guano.
Le parti che compongono il cavalletto sono le quattro assi, opportunamente tagliate, di un enorme telaio le cui chiavi incollate insieme fungono da fermaquadro. Una tavolozza tagliata a metà, sistemata sotto i pilastri laterali del cavalletto, fa sì che questo diventi a dondolo. Garibaldi qui non combatte ma gioca, si culla, si trastulla su un cavalletto a dondolo che ha i colori (azzurro e giallo) di Felix Willer.
G. S.