Bruno Cattani – Memorie
Cattani ha dato l’impegnativo titolo di Memorie a questa sua ricerca fotografica, avviata alcuni anni fa con la ricognizione su alcuni scorci della sua città natale, Reggio Emilia, e poi proseguita e sviluppata in altri luoghi, com’era forse alla fine inevitabile, dato il tema non certo circoscrivibile con cui ha scelto di misurarsi.
Comunicato stampa
Inaugura alla Galleria Sabrina Raffaghello Arte Contemporanea la mostra che porta ad Alessandria, a cura di Sabrina Raffaghello, il progetto Memorie di Bruno Cattani che accompagna la pubblicazione dell’omonimo libro Memorie edito da Allemandi.
Cattani ha dato l’impegnativo titolo di Memorie a questa sua ricerca fotografica, avviata alcuni anni fa con la ricognizione su alcuni scorci della sua città natale, Reggio Emilia, e poi proseguita e sviluppata in altri luoghi, com’era forse alla fine inevitabile, dato il tema non certo circoscrivibile con cui ha scelto di misurarsi. Impegnativo il titolo perché la memoria è l’essenza stessa della fotografia, la cui intima struttura è quella di conservare, diffondere e recuperare la memoria individuale e collettiva. Mala natura che parla all’apparecchio fotografico è diversa da quella che parla all’occhio, soprattutto perché al posto di uno spazio elaborato consapevolmente ne compare uno elaborato inconsciamente. La fotografia si pone come una sorta di inconscio ottico: ambiente e paesaggio si svelano solo a quello tra i fotografi che sa coglierli: scompone e ricompone le situazioni e ci restituisce gli elementi per comporre il collage della nostra esistenza. La fotografia in questo senso ci propone la realtà che vede il fotografo ma nel contempo ci consente di costruire la nostra. Vediamo solo ciò che conosciamo e così anche quando cerchiamo di leggere nella memoria dell’artista in realtà è la nostra memoria che ci racconta le fotografia. Le memorie di Cattani appartengono naturalmente alla sua Reggio, sono scattate in angoli, che Bruno conosce benissimo, che ha percorso nelle varie stagioni dell’anno e della sua vita, e che prendono il colore dei sogni, di qualcosa che è perduto, che per un attimo sublime riaffiorano alla coscienza. I piccioni sul selciato della cattedrale o fermi sui fili elettrici come note su una partitura, le panchine nei giardini pubblici di Reggio, lungo un sentiero dell’addio, con una figura che s’allontana sullo sfondo e che sta per essere ghermita dal buio, ormai confusa dentro l’oscurità degli alberi; le panchine e i tavoli che respirano desolazione in un giardino abbandonato di Colorno; la testa del drago che vigila su un angolo della Galleria Parmeggiani, con due passanti che stanno perdendo la propria identità sullo sfondo. Ma la memoria come fonte di identità non deve costituire una barriera cui ancorarsi per paura del diverso, del non vissuto. E allora lo sguardo libero di Cattani si allarga ad altri luoghi cercando tracce di altre memorie, diverse dalla propria, un modo per cercare altra vita. E così compaiono il vecchio gasometro di Roma, le stanze della follia ormai vuote del manicomio di Novara o una vecchia falegnameria di Siena. C’è l’infanzia delle giostre e dei giocattoli di legno e i miti giovanili nella porta di un campo da calcio e nel bigliardino. C’è l’inquietudine del sacro nelle reliquie delle sacrestie rotte o abbandonate: stiamo chiedendo alla memoria di dare un senso alla nostra vita e di aiutarci a reggere l’angoscia del vivere. Ci sono segni che riteniamo proprietà della nostra memoria, ma che se li osserviamo da più angolature rappresentano non solo le memorie di altri individui, ma anche le memorie collettive di culture diverse. I colori di questo lavoro di Cattani non sono mai gridati, ma tenui, esprimono quasi una tensione al bianco e nero, con una sorta di alone scuro ai bordi dell’immagine, rafforzato dal riquadro nero che le incornicia: anche questo contribuisce a una presa di distanza, a un senso di lontananza nel tempo, come se queste visioni si fossero spogliate, nel loro viaggio dentro il tempo, di ogni abbellimento. Anche la costante presenza, dentro l’immagine, di zone a fuoco e di altre sfocate realizza con un artificio ottico lo sforzo psicologico della ricerca del tempo perduto. Immagini che ci inducono a rallentare il ritmo del vivere qui e ora, a ripiegarci in noi stessi per ascoltare dentro di noi le voci sopite dell’anima universale.
A cura di Sabrina Raffaghello