Sveva Bellucci – Move
Sveva Bellucci, interrogando gli spazi vuoti e il silenzio delle case dopo il trasloco dei loro inquilini, ci propone una riflessione profonda e poetica sulla nostra condizione di esseri umani.
Comunicato stampa
L'angolo della stanza è osservato dal livello del pavimento. Lungo la base della parete di fondo è stato rimosso un listello dello zoccolo ornamentale. Nella lacuna si insinua una crepa che scende dall'alto lungo il muro. La fenditura verticale dell'intonaco si congiunge con la linea diagonale formata dal reticolo delle piastrelle, dividendo l'inquadratura in due. A destra, al margine dell'immagine, il fondo di un tendaggio rosso è illuminato dalla luce che proviene da una finestra che non vediamo.
Un altro angolo di stanza: sulle due pareti le aree rettangolari di colore chiaro sulla carta da parati floreale e le loro intersezioni ancora più chiare ci raccontano una vicenda di quadri sostituiti e spostasti nel corso del tempo. Altre impronte di quadri, altri scorci di stanze vuote. E poi prese del telefono e cavi elettrici che fuoriescono dalle pareti, con i capi avvolti nel nastro isolante, un'antenna televisiva srotolata sul pavimento, un flacone di shampoo dimenticato sul bordo di una vasca, scaffali vuoti e mensole occupate da qualche piccolo oggetto trascurato, ganci di plastica e di metallo, in bagno e in cucina, isolati o in gruppi compositi od omogenei di strana bellezza.
Nel corso di quattro anni Sveva Bellucci ha interrogato gli spazi delle case lasciate dai loro inquilini raccolte intorno al loro segreto di silenzio e di vuoto, con i loro spogli paesaggi segnati solo da tracce e impronte di una passata esistenza domestica, la loro scheletrica Umwelt di cavi elettrici e di supporti, privati della loro funzione, vibranti ancora di una disponibilità che si smarrisce in un tempo immobile e deserto.
Il titolo del lavoro della fotografa romana, Move, ci richiama appunto al tempo come orizzonte del nostro essere nel mondo. Tempo di ciò che è lasciato indietro, quando ci si muove in avanti, del residuo e dello scarto, di ciò che è abbandonato eppure nostro malgrado continua a definirci. Tempo della memoria e tempo dell'oblio e della trasformazione. E poi tempo della morte, di cui le case desolate di cui Sveva Bellucci ha tracciato una cartografia poetica, malinconica e bella, sono per un certo verso, una metafora.
In un'ultima fotografia un piccolo specchio appeso a un muro in ombra riflette lo scorcio di una stanza vuota. La luce che illumina una parete proviene, anche in questo caso, da una finestra sottratta alla nostra vista, come il resto della stanza. Noi guardiamo con gli occhi della fotografa la stanza illuminata alle nostre spalle riflessa nel piccolo specchio sul muro opaco e vorremmo voltarci.
(Fabrizio Bonci)