Martina Antonioni – Dentro la stanza
[…] Uno spazio espositivo. Due stanze. L’una: l’ordinamento di una mostra in atto. L’altra: l’ordinamento di una mostra in potenza. Qui si realizza l’evento. Qui ci si dispone all’ospitalità[…]Ma qui, ora, interviene la freschezza del dono. Martina Antonioni vi dona un frammento di sé e vi invita a farne ciò che vi garba, disponendolo sul muro o lasciandolo a terra o contemplandolo seduti sulla panchina o guardandolo mentre esso passa da quegli a quella nel suo microviaggio da una vita a un’altra, minuscolo e infinitesimale bruscolo di un attimo. L’ordinate voi, la mostra di Martina Antonioni […] – Estratto dal testo di Emanuele Belufffi
Comunicato stampa
MARTINA ANTONIONI. DENTRO LA STANZA
Dentro la stanza. Punto. Penso sempre all'affabilità del silenzio. E alla performatività, diciamo, di un gesto elegante racchiuso nella limpidezza semplice di un gesto letterario minimale. Così, privo di fronzoli, pulito, dignitoso. Custode, nella sua piccolezza, di una moltitudine di rimandi esplicativi. Inviti. Un'accoglienza. L'ospitalità di un evento. La psicanalista francese Anne Dufourmantelle titolò così il saggio/intervista al filosofo Jacques Derrida: Sull'ospitalità. Una rinnovata riflessione metateorica sul tema dell'accoglienza per una geografia della prossimità: sartrianamente, l'esistenza degli altri m'impegna a ex-sistere fuori dall'autoreferenzialità del mio cerchio.
Una mostra d'arte, come la produzione di un artista, non ha mai da essere autoreferenziale: pena, la sua intrinseca vacuità. Se l'arte non ci sorprende, non ci stimola, non ci fa riflettere, non ci coinvolge e non ci parla, non ci mostra qualcosa (l'arte è ineffabile, non dice nulla ma mostra tutto quel che c'è da sapere), in una parola: se-a-noi-non-ci-impegna, l'arte si racchiude nel piccolo universo dell'inutile condannandosi alla precarietà ontologica di un gesto inane.
Uno spazio espositivo. Due stanze. L'una: l'ordinamento di una mostra in atto. L'altra: l'ordinamento di una mostra in potenza. Qui si realizza l'evento. Qui ci si dispone all'ospitalità. Sai che novità, far lavorare i corpi dei visitatori. Quante volte abbiamo letto di mostre in cui il pubblico dialoga con lo spazio espositivo e interagisce performativamente con le opere.
Ma qui, ora, interviene la freschezza del dono. Martina Antonioni vi dona un frammento di sé e vi invita a farne ciò che vi garba, disponendolo sul muro o lasciandolo a terra o contemplandolo seduti sulla panchina o guardandolo mentre esso passa da quegli a quella nel suo microviaggio da una vita a un'altra, minuscolo e infinitesimale bruscolo di un attimo. L'ordinate voi, la mostra di Martina Antonioni, attualizzandola ogni volta in maniera indeterminata.
C'è una cosa, sull'agire dei corpi e nella fattispecie sull'agire dei corpi in una mostra d'arte, in questa mostra d'arte, su cui è bene riflettere. Il corpo, il corpo proprio e vivo, quello che il filosofo Edmund Husserl identificava con la locuzione Leib per distinguerlo dal corpo oggettivo Korper, viene qui a confermarsi non solo come il punto zero dell'orientazione spaziale all'interno di uno spazio espositivo in cui il corpo oggettivo si barcamena fra altri oggetti (che nello specifico assumono lo statuto ontologico di oggetti d'arte), ma soprattutto si riconferma come il mezzo espressivo che realizza lo spazio attraverso il luogo, secondo un processo che potremmo definire il movimento della lontananza.
Entro in galleria. M'annuncio. M'accolgono. Osservo le opere esposte nella prima stanza. Mi muovo, mi fermo, mi sposto di nuovo. Percorro il perimetro in lungo e in largo e in diagonale finché non arrivo nella stanza adiacente, dove raccolgo una carta, una tela, l'attacco alla parete, la schiodo, la lascio per terra, la deposito da un'altra parte, mi siedo sulla panchina, fumo una sigaretta e guardo altri corpi compiere con infinite variazioni i miei movimenti e le mie azioni con le stesse carte e le stesse tele e con altre carte e altre tele. L'elargizione di un dono, i frammenti di Martina. Se il mio corpo fosse contornato da una specie di linea ideale, allora i miei movimenti lascerebbero di volta in volta la traccia di uno spostamento nello spazio. Lascio ovunque tracce di me. Il mio corpo contorna il luogo definendo tanti luoghi quanti sono i miei spostamenti nello spazio. Lo spazio, lo realizzo io attraverso i miei luoghi. L'arte visuale, dentro la stanza di Martina, è il movimento della mia lontananza. E non è che qui sia l'opera a interagire con lo spazio: ma, piuttosto, è il corpo, il corpo proprio vivo, che realizza lo spazio.
Tutto ciò è possibile per via della levità. C'è tutta Martina Antonioni in questi lavori, anche se per astrazione e allontanamento. Il suo sguardo, sollevandosi da essi, è lo stesso di chi sta a terra. Negativo, positivo. Come sotto, così sopra. E, come nella miglior tradizione che vuole l'idea intellettuale dignitosa quanto l'opera materiale, la produzione di Martina Antonioni non è altro che il residuo di un pensiero, frammento di un ordito narrativo dove alle parole subentrano i tratti di biro e di matita, residui mnestici e depensamenti disseminati con assorta levità lungo una rete dagli accessi liberi e molteplici.
Emanuele Beluffi