Enzo Amendola
Il dono (e insieme, ovviamente, il progetto) del lavoro visivo di Enzo Amendola è qualcosa che sarei tentato di definire innaturale naturalezza, nel senso che da sempre l’artista esercita sulla sua materia, già di per sé raccolta all’interno di un perimetro molto concentrato, una strenua salvaguardia formale e un nitido rigore.
Comunicato stampa
Il dono (e insieme, ovviamente, il progetto) del lavoro visivo di Enzo Amendola è qualcosa che sarei tentato di definire innaturale naturalezza, nel senso che da sempre l’artista esercita sulla sua materia, già di per sé raccolta all’interno di un perimetro molto concentrato, una strenua salvaguardia formale e un nitido rigore. L’autenticità del rapporto immediato col soggetto è sempre sottoposto a una serie di interventi di secondo grado che ne alterano senso e misura. L’artificio, il priem dei formalisti russi, inteso come primazìa delle forme sui contenuti, è un dato de-regolatore da sempre presente nella ricerca dell’artista romano. E’ però da dire che la sintassi amendoliana procede per movimenti obliqui che evitano ogni frontalità dichiarata, e – pur nella sua sintesi organicamente compatta, nel suo sistema di natura saldamente plurale – persegue una strategia volta a mettere in crisi le sicurezze del riguardante grazie a un gioco (mai clamoroso) di spostamenti, di rinvii, di scarti, di détours allusivi che inducono, anche nelle situazioni meno esplicitate sul piano del racconto, allarme e sospetto.
Le opere dell’artista, dagli affascinanti olii alla peritissima grafica, hanno l’aria di essersi fatte da sé, per autogenesi. A primo colpo, l’impressione del riguardante è in qualche misura analoga alle suggestioni di quella poetica dell’impersonalità che in letteratura fu, tra Flaubert e Zola, il modus operandi di un realismo tardo-ottocentesco piuttosto visionario che mimetico. Bene. Un pittore come Amendola tende a scomparire nel manufatto, per rovesciare su di esso, sempre, ogni responsabilità di ottica e di stile. Ovviamente, senza riuscirci del tutto se (come mirabilmente avviene in uno dei pezzi più perturbanti di questa serie di opere degli ultimi anni come Il bagno, 2011, che senza smentirla acuiscono una visione duplice, dissociata e straniata tra le personae di una drammaturgia pittorica straordinariamente inquieta sotto la sua apparente impassibilità) appare a un tratto, in primo piano, un autoritratto a figura intera assolutamente anticelebrativo, che guarda in tralice l’osservatore volgendo le spalle alla sagoma femminile che sta entrando in acqua in un mare con funzione di fermo fondale verde pallido senza effervescenze, appena increspato attorno alle gambe della donna.