Giuseppe Polverari – Parole come pietre
Cinque sale di ritratti a matita realizzati su scontrini fiscali montati su pietre di tufo. I volti ritratti, sia pittorici che a matita, non sono casuali: rispecchiano una riflessione sull’identita’, attraverso un patrimonio artistico che affonda le sue radici nel Romanticismo.
Comunicato stampa
a cura di Magazzini Criminali
Poesie di LAURA CORRADUCCI
Il Convento dei Servi di Maria a Monteciccardo segna l’andamento delle colline pesaresi, punto nevralgico da cui rimirare le stesse in un gioco di specchi, che conferisce al nucleo monastico del Seicento un ruolo di testimonianza di vita comunitaria e armoniosa, di cui oggi rimane solo un vago ricordo.
Cinque sale sono lo spazio perimetrale in cui ritratti a matita su scontrini fiscali posizionati su pietre di tufo, insieme a ritratti pittorici di personaggi famosi su superfici di carta di grandi dimensioni, dischiudono all’osservatore una visone teatrale poetica e drammatica che richiama, pur trasformati, principi e logiche dell’umanesimo, e che riflette sulla sorgente della sola e unica visione profonda che l’artista ha: la sua vocazione all’arte che l’emozione aiuta a comprendere, che non vuol dire capire ma abbracciare, attraverso delle attrattive.
In questo spazio il percorso delle opere visive è accompagnato da alcuni versi poetici, tracce della lettura di poesie in apertura inaugurale, che testimonia l’univoca ricerca di immagine, in questo caso la vocazione poetica dell’autrice, che l’emozione estrapola dall’indistinto rendendola realtà attraverso la ritmicità, di suoni e parole, che rinviano alle attrazioni esercitate da personalità poetiche. Ed è proprio su queste attrattive, risolte nell’emozione, non in un rigido intellettualismo, pur nella specificità dei linguaggi-la parola in poesia e la pittura in arte-, che le opere visive e poetiche trovano nell’immagine il loro punto d’unione. Se da un lato non vi è una interpretazione univoca sul piano della scelta dei personaggi dipinti e disegnati, che originano diversi piani formali e simbolici, pur in un linguaggio coerente, e sul piano poetico, che l’autrice non vuole si consumi in un linguaggio di elaborazione, quanto di ricerca individuale, dall’altra tale univoca interpretazione, invece, è presente nel più ampio progetto espositivo che mette in luce il peso dell’antitesi uno-molteplice, individuo-comunità, passato-presente, istante-durata, che tenta qui di riformulare il concetto di centralità come visione frontale. Le condizioni da cui questa visione nasce sono da rintracciare nelle relazioni formali e ideologiche che intercorrono tra i ritratti su scontrini e su carte di grandi dimensioni, e tra i disegni a matita e le opere che testimoniano precedenti esposizioni.
Il linguaggio, utilizzato per creare l’immagine che di stanza in stanza viene mostrata, si incentra su un elemento ordinario, estrapolato dal flusso di relazioni umane, su cui si possono anche innestare ragionamenti antropologici e di “ethos”: lo scontrino fiscale, un effimero pezzetto di carta, destinato a perire nel giro di poco tempo, a esser gettato via. La sua tragica condizione viene assunta dall’artista come fondante il concetto di realtà: esso è la realtà, estrapolata e riconsegnata, attraverso il gesto estetico-i ritratti a matita disegnati sopra-, ad una nuova visione, che, per necessità di logica, pone il problema etico, una riflessione sulla funzione sociale dell’arte come rivelatrice di contenuti profondi, lontani da facili interpretazioni. Non vi è, così, tanta differenza tra la logica che, in Caravaggio, porta i suoi modelli di strada a essere interpreti di nature e visioni divine-una prostituta per Madonna- con le quali restituisce una nuova rivoluzionaria realtà, una delle testimonianze più autentiche di anticipazione della Controriforma, da quella che, in questo caso, porta gli scontrini ad essere visti come corpi vivi e solenni!
La loro presenza nello spazio, non incorniciati, accentuano il loro carattere di corpi, fanno sentire tutto il loro peso che è la loro specifica dimensione. Ancor più che sono uniti ad un materiale che, per contrasto, ne accentuano la loro natura sensibile. Essi, infine, mettono in scena una loro rappresentazione come corpi, espressi con un linguaggio drammatico che manifesta il ruolo predominante del segno, che, con la sua nettezza e la sua pressione quasi tagliente, genera nei suoi grovigli l’ombra, e che, nella fusione con la superficie, rivela la nascita di un volto, o di un suo particolare. Nella matrice gestuale del segno che dall’ombra fa scaturire l’immagine, non più come purezza formale, si innesta l’emozione, che restituisce una immagine profonda.
Ritroviamo la stessa riflessione linguistica nelle opere di grande dimensione, concepiti in modo antitetico ai disegni. Questi grandi lavori, realizzati pittoricamente con smalti, in bianco e nero, con soli accenni cromatici limitati ad aree esterne ai volti, sono posizionati all’altezza della fronte dell’osservatore. Essi forniscono, in relazione ai lavori su scontrini, un peso visivo contrapposto, che rende ancora più manifesto il valore di entrambe le tipologie di opere che segnano una uscita dalla prospettiva del quadro tradizionale, nell’accezione sedimentata nella coscienza collettiva.
Se da un lato i ritratti a matita rappresentano oggettivamente corpi reali con la loro presenza e scansione ritmica, susseguendosi uno all’altro con la loro precisa misura, dall’altro i ritratti di grande formato immobilizzano tale ritmica scansione e aprono davanti all’osservatore una visione dai caratteri umanistici. Per il fatto di essere di dimensioni parietali, essi istituiscono il connubio tra struttura architettonica e pittura, su cui si fonda la visione prospettica e la nuova centralità dell’uomo rinascimentale, ma, per il fatto di utilizzare un linguaggio gestuale, non realizza più una profondità legata a ferree leggi prospettiche, così che vi è un cambiamento nel senso di centralità, che può essere espresso nel concetto di visione frontale.
Vale a dire che l’osservatore mantiene il suo ruolo centrale di interlocutore privilegiato, che viene messo di fronte alla visione profonda, data dall’opera, la cui comprensione è affidata all’ emozione.
L’osservatore, dunque, non è altro che il centro di una circonferenza, costituita dalle opere, che l’attrazione tiene a sé e aiuta a comprendere. L’emozione è il risultato di quell’attrazione che si esercita tra il centro e la sua circonferenza, che l’immagine poetica dello spazio manifesta.
La scelta di ritrarre personaggi famosi non ha lo scopo di far conoscere una personalità. La mostra non è concepita come strumento di divulgazione di sapere, piuttosto come indagine della profondità della visione, che si rivolge a quei flussi incorporei abbracciati dall’emotività. È facile, dunque, intuire la volontà di ripartire dalla sfida della profondità della visione in contrapposizione alla visione piatta della globalizzazione.
I volti ritratti, d’altra parte, sia pittorici sia a matita non sono casuali. Essi rispecchiano una riflessione sull’identità, attraverso un patrimonio artistico che affonda le sue radici nel Romanticismo e nelle personalità che, pur nelle differenze esistenziali e poetiche oggettive, evidenziano un cammino unitario, una idea unitaria: vite, la cui dedizione e sincera ricerca artistica hanno sempre cercato di restituire la loro visone primigenia, quella della vocazione all’arte, che fonda un rinnovato e profondo interesse etico, a mio parere rivoluzionario.
Se in una stanza i ritratti accentuano il significato simbolico dell’opera di Kounellis e riportano al presente il ragionamento intellettualistico di Paolini sull’origine di una visione assoluta, sottolineata dal gesto ambiguo di Montale-non si sa se indica pensiero o follia-, in un’altra richiamano l’idea di assemblea, rappresentata da due file di sedie poste l’una di fronte all’altra. Se in una stanza i ritratti richiamano la fedeltà ad una vita rigorosa di scelte radicali, senza ripensamenti, rappresentata dalla interazione dei ritratti con corde bianche e nere schiacciate e fissate al pavimento da pietre, in un’altra ancora indicano, come medaglioni, il peso di una scelta di vita votata all’immaginazione, fino alla drammatica condizione di irraggiungibilità della visione nella deriva del quotidiano, rappresentato dal movimento creato dal mare di vetro di bottiglie, lasciate da Kounellis.
L’antitesi dei ritratti pittorici e a matita, in queste stanze, insieme ai versi poetici, scandisce lo spazio architettonico in un misurato ritmo di equilibrio e restituisce un’immagine poetica e lirica in cui il senso del viaggio intrapreso fisicamente all’interno delle stanze, viene riportato ad una dimensione teatrale, sulla quale le emozioni esercitano attrazioni sull’osservatore. Il cerchio si chiude.
Giuseppe Polverari