Patrizia Cassina – Quasi
Capita che certi titoli di opere risultino emblematici di un intero percorso artistico. Nel caso di Patrizia Cassina, Quasi niente è visibile, quasi tutto è presente suona come un’involontaria epigrafe a un discorso non lungo, ma già articolato, già spontaneamente strutturato, condotto attraverso la pittura.
Comunicato stampa
Testo critico
Capita che certi titoli di opere risultino emblematici di un intero percorso artistico. Nel caso di Patrizia Cassina, Quasi niente è visibile, quasi tutto è presente suona come un’involontaria epigrafe a un discorso non lungo, ma già articolato, già spontaneamente strutturato, condotto attraverso la pittura.
Diciamo che Patrizia è partita da una situazione all’incirca agli antipodi. Nei suoi primi dipinti quasi tutto è visibile, ma poco o nulla è presente. Nelle opere intitolate Dentro le scene di interni sono più o meno chiaramente profilate: ciò che c’è ha un’apparenza, si manifesta, si rende visibile attraverso la pittura, ma è come se non ci fosse del tutto, come se non ci fosse per davvero (come se il suo esserci fosse soltanto funzionale al suo rendersi visibile). Ecco allora che progressivamente le “cose”, i riferimenti, le sane certezze figurative, tendono a smarrire le loro forme, a perdere la riconoscibilità. Sono forse diventate assenti? Tutt’altro: si sono come ispessite, hanno acquisito quella densità assoluta che è propria del colore puro; si sono però sottratte alla vista, anche se non del tutto.
Capita che certi avverbi siano fondamentali per intendere non solo i verbi, ma anche i soggetti delle stesse azioni. Il segreto di quel titolo emblematico sta tutto lì: nel quasi. Non so se Patrizia abbia letto un bellissimo saggio di Vladimir Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi niente, ma le sue opere (ed evidentemente anche i suoi titoli) hanno molto a che fare con quel libro. Il tutto e il niente devono sempre essere maneggiati con cura: per non risultare enfatici o artificiosi, hanno bisogno di essere preceduti da un quasi. Inoltre il rapporto tra ciò che è visibile e ciò che è presente, nella sua pittura, e forse più in generale nella realtà, non è mai compiuto. Questa incompiutezza ha però dei risvolti virtuosi: permette la bellezza, o quantomeno l’eleganza.
Le opere più convincenti di Patrizia sono quelle paradossalmente più imperfette e allo stesso tempo più vibranti, quelle in cui il fremito di interesse è generato da un non-so-che che travalica l’esercizio della buona pittura. Un esercizio senza dubbio necessario, ma in sé non sufficiente e comunque bisognoso di sortire un altro, paradossale risultato. Amare la perfezione perché essa è la soglia, recita una folgorante poesia di Yves Bonnefoy, ma negarla non appena conosciuta, dimenticarla come se fosse morta: / l’imperfezione è la cima.
E’ capitato, negli ultimi due decenni, che, sulla scia di un generale fraintendimento di ciò che è stato il “concettuale”, certa arte abbia tentato di inesprimere l’esprimibile: abbia insomma cercato di azzittire il linguaggio, di renderlo cerebralmente neutro, inespressivo, illudendosi di raggiungere in tal modo l’assoluto, o perlomeno un suo surrogato. Questo tentativo va nella direzione opposta alla tensione a esprimere l’inesprimibile che ha caratterizzato la pittura del Novecento. Fortunatamente Patrizia si pone nel solco di quella tensione, ma lo fa con cautela. Sa che l’inesprimibile può essere pura retorica se non possiede una sua consistenza e non emana calore: se non ha insomma tutte le caratteristiche di una presenza. Se invece le ha, non è importante, per essere espresso, che sia del tutto visibile. Una presenza quasi invisibile: ecco ciò a cui tendono le opere di Patrizia. Ancora una volta, nel quasi sta il segreto di queste opere. A tradire la presenza, a trasmetterla allo spettatore, è ovviamente il colore: ma lo fa soltanto accennandovi, lo fa segnalandola in modo obliquo, indiretto. Come se anche il colore, per non risultare enfatico o artificioso, necessitasse di una misura, di una distanza, di un quasi.
Roberto Borghi