Giuliano Vangi – Sculture e disegni
L’esposizione articolata in due parti – presso la ex Funivia di Pocol e nelle sale della Galleria Farsettiarte, al Largo delle Poste – presenta una serie di sculture ispirate ai grandi modelli del passato.
Comunicato stampa
Giovedì, 9 agosto 2012, a Cortina d’Ampezzo, verrà inaugurata un’importante mostra dedicata a Giuliano Vangi, uno dei maggiori scultori viventi. L’esposizione si articola in due parti, presso la ex Funivia di Pocol e nelle sale della Galleria Farsettiarte, al Largo delle Poste.
Giuliano Vangi
Nato a Barberino di Mugello (Firenze), il 13 marzo 1931, Vangi ha studiato all’Istituto d’Arte, allievo di Bruno Innocenti, e all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Dal 1950 al 1959 ha insegnato presso l’Istituto d’Arte di Pesaro. Tra il 1959 ed il 1962 si trasferì in Brasile, dove eseguì opere astratte, utilizzando cristalli, ferro e acciaio. Espose alla Biennale di San Paolo, vinse il Primo Premio al Salone di Curitiba e tenne una mostra personale al Museo d’Arte Moderna di San Paolo. Tornato in Italia, si stabilì a Varese e ottenne una cattedra all’Istituto d’Arte di Cantù; poi si trasferì a Pesaro. Qui ritornò allo stile figurativo, concentrando le sue ricerche sugli stati d’animo dell’uomo contemporaneo. Dotato di una solida tecnica, egli seppe infondere alle sue sculture una straordinaria forza espressiva ed emotiva. I suoi personaggi ci trasmettono con immediatezza i loro sentimenti più profondi: gioia o dolore, paura o serenità, amore o odio, amicizia o solitudine, speranza o disperazione. Le sue sculture si ispirano ai grandi modelli del passato, ma nello stesso tempo utilizzano un linguaggio moderno e originale. Lo spettatore rimane affascinato dal morbido, raffinato modellato e dalla minuziosa cura dei particolari. In una recente intervista Vangi ha detto: “L’uomo di oggi e la sua lotta contro un mondo ostile resta comunque il tema fondamentale della mia opera, tutto il resto m’interessa poco. Voglio raccontare i suoi conflitti interiori e i problemi che affronta a livello sociale, solo così sento di essere a posto con la mia coscienza: aver ‘raccontato’ qualcosa che riguarda tutti gli uomini e non essermi limitato alle mie piccole gioie o dolori personali”.
Nella sua carriera Giuliano Vangi ha esposto con successo in molte sedi prestigiose, in Italia e all’estero. Tra le principali ricordiamo la mostra personale a Palazzo Strozzi di Firenze nel 1967, organizzata da Carlo Ludovico Ragghianti, la mostra itinerante ad Hannover, Wurzburg, Kiel, Colonia e Lisbona nel 1970, l’esposizione ad Hakone, Tokyo, Osaka e Città del Messico del 1972, la personale alla Galleria d’Arte Moderna di Torino e alla Permanente di Milano nel 1977, la grande retrospettiva al Castel Sant’Elmo di Napoli nel 1995 e quella al Forte del Belvedere di Firenze nel 1995, l’esposizione al Museo degli Uffizi di Firenze intitolata “Studi per un crocifisso e opere scelte 1988-2000”, nel 2000 e la mostra personale all’Ermitage di San Pietroburgo nel 2001. Ha partecipato più volte alle edizioni della Biennale di Venezia, della Quadriennale di Roma e della Biennale di Scultura di Carrara. Nel 2002 vinse il Premio Imperiale per la Scultura della Japan Art Association di Tokyo. Ha fatto parte dell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze, dell’Accademia di Santa Lucia e dell’Accademia dei Virtuosi al Pantheon di Roma. Molte sue opere si trovano in ambienti pubblici, collocate in contesti prestigiosi, come la statua di San Giovanni Battista a Firenze, posta tra Via de’ Bardi e Lungarno Torrigiani, vicino a Ponte Vecchio (1996), la Lupa in Piazza Postierla (o dei Quattro Cantoni) a Siena (1996), il Crocifisso ed il nuovo Presbiterio nella Cattedrale di Padova (1997), la scultura in marmo intitolata “Varcare la Soglia” posta al nuovo ingresso dei Musei Vaticani (1999-2000), il nuovo altare e il relativo ambone del Duomo di Pisa (2001), una scultura in legno policromo per la Sala Italia di Palazzo Madama a Roma, “Donna in movimento” in una piazza del centro di Pontedera, “Noli me tangere”, un ambone in pietra garganica sul tema di Maria di Magdala nella chiesa di San Pio a San Giovanni Rotondo (2004), la nuova cappella del cimitero comunale di Azzano (LU), ideata insieme all’architetto mario Botta, con il quale ha collaborato anche al santuario di Papa Giovanni XXIII a Seriate.
Giuliano Vangi è l’unico scultore vivente ad avere un museo a lui dedicato, a Nagaizumi-cho, Shizuoka, presso Mishima, in Giappone, inaugurato il 28 aprile 2002 (www.vangi-museum.jp). Le sue opere, sessanta sculture e altre quaranta opere tra modelli in gesso policromato, disegni e grafiche, sono esposte in uno spazio di trentamila mq., parte al chiuso, parte in un ampio giardino all’aperto, chiamato “colle delle Clematidi”.
Così Philippe Daverio commenta l’opera di Giuliano Vangi: “Giuseppe Verdi aveva nel 1893 ottant’anni quando compose il Falstaff. Fu con quel magistrale lavoro musicale in grado di reinventare una vena ironica e di porre le basi della musica per il mezzo secolo successivo. Le tensioni armoniche, l’incalzare delle consecuzioni ritmiche, la stessa dimensione teatrale erano per lui medesimo totalmente innovative: l’opera d’un allegro giovanotto carico d’ironia. Fa riflettere il grande motociclista tutto bronzo, motocicletta compresa, che Giuliano Vangi ha inventato anche lui all’età di ottant’anni, lavoro magistrale da giovanotto sia per la fisicità richiesta nel realizzarlo sia per la grinta neces- saria a concepirlo. Il suo guerriero antico che agita la doppia mano come in una fotografia di Bragaglia mentre si proietta su un destino forse epico è invero la scultura futurista che al futurismo è sempre mancata. È una scultura “nuova” in tutti i sensi nel parco di Vangi. Ha il coraggio, che raramente si trova nelle opere che circolano fra Biennali e grandi mostre, di narrare oggi una cosa di oggi, d’andare oltre la declinata contemporaneità per diventare attualità. Per essere testimonianza dell’attualità da proiettare nel domani. Ma si porta pure appresso quella faccia feroce che il casco nasconde e che vien dal profondo atavico del toscano che si ricorda di quando i suoi parenti etruschi battevano terre e mari con e contro i greci e gli altri talassici. Il punto comune fra Verdi e Vangi diventa evidente; consiste nel fascino della loro epica. Era facile assai, forse addirittura naturale, essere epici un secolo e mezzo fa quando tutta la società della penisola anelava all’avventura politica che portò al sangue e all’Unità. È difficile essere oggi epico. Lo dimostra la banalità commerciale che impone il mercato globale per consentire una platea di gusto accettabile da tutti. Chi vuole uscire dalla placida corrente, quella rassicurante ma priva di gloria, lo può fare solo con la fuga da un lato nella poesia e dall’altro nell’epos, che altro non è che la poesia portata all’estremo dell’azione. In un caso come nell’altro il buon gusto va abolito.
Il buon gusto pacificatore, quello che tutti mette d’accordo. Il buon gusto, abbraccio soffice e soporifero. Vangi non lo ha mai tollerato, e forse in ciò l’essere nato nel Mugello gli è stato d’aiuto. Il toscano, quando lo decide, può essere toscanaccio. Vangi non ha mai esitato. E nell’essere tale porta in sé e con sé quella grinta che sin dagli anni romanici qui s’è sempre coltivata e che fu capace nei secoli successivi di dare spessore alle lusinghe umaniste delle architetture e delle plastiche rinascimentali. Umanista, espressivo, materiale. Vangi s’è occupato da sempre di dare con le mani espressione alla materia. S’è occupato dell’uomo, della donna, nel loro esistere di esaltazione e di dolore, di riflessione e di conflitto. E ha indagato ogni tipo di materia, il legno, il marmo, anzi i marmi dalle mille provenienze, il bronzo, l’avorio addirittura. Vive e trasmette il fascino d’una materia destinata a durare ben più di noi, oltre le contingenze dei nostri anni, forse in una proiezione che reputa l’eternità dell’opera uno scopo raggiungibile. Porta la materia lavorata alla preziosità antica o medievale di chi sapeva che non si sarebbe consumata prima dell’arrivo della Gerusalemme Celeste. Il lavoro dello scultore qui è preceduto sempre da una lunga preparazione. Nulla è lasciato al caso. Disegni precisi al punto da diventare opere autonome sono il percorso propedeutico per approfondire la sensazione e il pathos. L’atmosfera stessa dello studio contribuisce a collegare bozzetti e progetti. La realizzazione dell’oggetto è fatica lunga che parte dalla scelta della materia e si conclude con l’elaborazione delle superfici conclusive. Sicché il risultato rimane sempre una epifania inattesa, una sorpresa mentale e tecnica al contempo.
Anche l’ambiguità vi gioca un ruolo trascinante. Tutto è perfetto e preciso, nulla è certo. La comprensione della forma non è affidata solo alla vista, alle ombre e ai volumi, richiede la parte tattile che troppo spesso la scultura recente ignora. È solo toccando che si percepiscono le delicatezze in dialogo con le forze; perché lo sculture invita sornione l’avventore a ripercorrere il percorso che le mani sue hanno plasmato e levigato. La mescolanza sensoriale delle temperature percepite nel toccare la materia, delle finiture guardate e sentite, dei pesi intuiti nella statica, vanno a generare una sensazione di complessità che apre a mille interpretazioni di- verse. Il digrignare dei denti s’accompagna alla felicità delle cuti, le stoffe di bronzo fanno da contrappunto agli inserimenti dei metalli preziosi nelle barbe. Ma non è forse il bene più prezioso del creato proprio lui, l’essere umano, straziato o felice, Falstaff o motociclista?”.