[S]oggetti migranti: dietro le cose le persone
La mostra [S]oggetti migranti è il risultato finale di un lungo percorso che ha impegnato il Museo nella partecipazione al progetto europeo READ-ME (Réseau Européen des Associations de Diasporas & Musées d’Ethnographie).
Comunicato stampa
Dalla “Presentazione” di Luigi La Rocca (Soprintendente al Museo “Luigi Pigorini”) al Catalogo della mostra [S]oggetti migranti: dietro le cose le persone
La mostra [S]oggetti migranti è il risultato finale di un lungo percorso che ha impegnato il Museo nella partecipazione al progetto europeo READ-ME (Réseau Européen des Associations de Diasporas & Musées d'Ethnographie).
Avviato nel 2007 per iniziativa del Musée Royal de l'Afrique Centrale di Tervuren (Bruxelles) in collaborazione con il Musée du quai Branly di Parigi, l'Etnografiska Museet di Stoccolma e il Museo “L. Pigorini”, il progetto READ-ME è stato rilanciato nel 2009 proprio dal Museo Nazionale Preistorico Etnografico di Roma, che ha assunto il ruolo di capofila con il programma [S]oggetti migranti e a cui, insieme ai musei di Tervuren e Parigi, ha preso parte il Museum für Völkerkunde di Vienna.
Da anni il Museo "Luigi Pigorini" condivide con alcuni tra i più importanti musei etnografici europei la partecipazione a progetti pluriennali finanziati dall'Unione Europea, come è il caso del programma RIME (Ethnography Museums and World Cultures). Tali progetti sono finalizzati alla condivisione di esperienze e pratiche di valorizzazione delle collezioni e alla comune promozione della diversità culturale, e sono animati dalla consapevolezza che nella società contemporanea, attraversata da flussi interculturali che stanno trasformando la fisionomia dell'Europa, i musei etnografici sono chiamati a rinnovare la loro missione proponendo nuove possibilità di interpretazione e di fruizione del patrimonio antropologico alla luce di nuove esigenze di comunicazione imposte dalla presenza, ormai diffusa, dei rappresentanti delle culture che le opere e le testimonianze custodite ed esposte hanno a suo tempo prodotto.
Ciò ha consentito un proficuo rapporto di partenariato e possibilità di scambi di esperienze, maturati attraverso l’organizzazione di laboratori scientifici ed eventi espositivi, con direttori, curatori e funzionari dei musei partners. Questo rapporto, se da una parte ha evidenziato le eccellenze consolidate delle esperienze italiane nel campo della conservazione e del restauro, della catalogazione e, più in generale, della tutela dei beni, dall'altra ha sollecitato la necessità di affrontare con nuova determinazione temi altrettanto importanti che attengono ad un rapporto con le comunità della diaspora, inteso come partecipazione diretta alle attività museali, nell'ottica della valorizzazione dello spazio museale in quanto forum di confronto e di dialogo.
Attraverso le attività previste dal progetto, che ha visto la partecipazione, coordinata dai demoetnoantropologi dell'Istituto, di collaboratori e rappresentanti delle associazioni della diaspora africana, asiatica e latino-americana, si è voluto dunque porre ancora una volta l'accento sulla nuova funzione del museo etnografico come strumento di azione e di inclusione sociale, orientato alla riduzione delle frizioni causate dai conflitti interculturali e al miglioramento della capacità di rendere accessibile a tutti i cittadini un patrimonio condiviso sia nella sua dimensione materiale che nei suoi valori intangibili.
Dalla collaborazione tra curatori e diaspore, nel corso dei seminari periodici e degli ateliers itineranti, è scaturita l'idea, condivisa con i partners europei, dell'esposizione romana, fondata sull'adozione e l'analisi di alcuni reperti individuati dalle associazioni della diaspora quali “propri oggetti migranti" attraverso scelte esplicitate e tradotte nelle diverse forme espressive che la mostra documenta.
Vito Lattanzi, “Per una museografia del doppio sguardo” (Introduzione al Catalogo)
(…) Il progetto [S]oggetti migranti - READ-ME 2 ha voluto rimettere in gioco l’eredità culturale nostra e delle diaspore extraeuropee attraverso l’incontro diretto con le collezioni del museo e il confronto interculturale sul valore contemporaneo degli oggetti del museo.
Nel suo moderno significato il patrimonio non è solo un bene con un valore fondato su criteri storici e convenzionali ma è un prodotto culturale sempre contemporaneo; è espressione della coscienza attuale che individui e gruppi hanno del proprio passato, quindi è socialmente costruito da pratiche identitarie e da saperi non solo di ordine scientifico o artistico ma anche politico ed economico.
Nell'elaborazione del progetto [S]oggetti migranti, proposto ai partner europei per la seconda edizione di Read-me, si è deciso di considerare l’oggetto del museo come un tassello fondamentale della complessità dei mondi dai quali proviene e ai quali rinvia, tenendo conto che i processi di conoscenza dipendono sempre dal posizionamento delle forze in campo, e i patrimoni culturali hanno bisogno di strategie interpretative plurime e non semplicemente descrittive.
Gli oggetti etnografici dei musei sono testimonianze di altre civiltà, documentano un passato coloniale ancora in fase di ripensamento e alimentano storie non sempre pacificate, a volte contese, che tornano alla luce, se li si interroga col metodo relazionale e dialogico, cioè insieme con quanti vi possono riconoscere le tracce della propria memoria culturale.
Il museo etnografico, per sua natura disciplinare e a vocazione sociale, è una risorsa riflessiva per la costruzione di località globalizzate e di nuove forme di cittadinanza attiva, poiché è in grado di assumere in modo radicale una delle ragioni politiche più significative del museo postmoderno: liberare le potenzialità del doppio sguardo sugli oggetti.
L’obiettivo di [S]oggetti migranti - READ-ME 2 è stato quindi quello di restituire valore soggettivo agli oggetti, riconnettendo l'esperienza delle diaspore contemporanee alle collezioni migrate nel museo dai rispettivi paesi d'origine nel corso dell'epoca moderna. La “migrazione” passiva degli oggetti conservati nelle raccolte, formatesi nel corso dei processi di esplorazione, conquista e colonizzazione europei, ha sottratto quegli oggetti al terreno da cui sono stati prelevati e li ha assegnati a generiche umanità, privandoli quindi della soggettività necessaria a dar loro un significato socio-culturale. In realtà essi provengono da viaggi che sono densi di esperienze, incorporano le storie umane e culturali di quanti li hanno manipolati o li hanno avuti in cura. Essi sono quindi veicolo di appartenenze e di affettività, hanno a che fare con il ricordo e contribuiscono a definire meglio i confini delle identità contemporanee.
Nello spirito del progetto di collaborazione Museo-Diaspora, e in vista dell’esposizione romana, al Museo Pigorini è stato costituito un gruppo di lavoro composto dai curatori etnoantropologi dell'Istituto e da alcuni rappresentanti di associazioni Buudu Africa, Kel'Lam onlus, AssoCina - Associazione dei Cinesi di seconda generazione, Comunidad Peruana de Roma e Comunidad Católica Mexicana de Roma. Gli atelier di preparazione della mostra sono stati concepiti come un percorso di conoscenza del museo e come uno scambio di esperienze finalizzate sia alla messa in valore delle collezioni sia alla costruzione di nuovi contesti e racconti in cui inserire e presentare gli oggetti.
Nel corso di svolgimento del progetto, il gruppo di lavoro inizialmente ha individuato nelle collezioni del museo alcuni oggetti scelti a partire dalla loro storia culturale, riflettendo sui loro significati storici e attuali. In una seconda fase, si è passati alla progettazione e alla scrittura dell’iter espositivo della mostra che ha previsto anche forme di “adozione”, da parte delle associazioni coinvolte, di oggetti del museo in vista di proporre l’analisi di propri “oggetti migranti” secondo criteri di rappresentatività sia sociale sia individuale.
L’adozione di oggetti che ne è scaturita è stata il pretesto per costruire percorsi narrativi attorno al viaggio da sempre compiuto dagli oggetti e dalle persone. Questo processo di riconoscimento, di riflessione e di reinterpretazione in forma dialogica e narrativa degli oggetti è stato intenso e a volte conflittuale, ma ha sicuramente favorito la familiarizzazione con l’istituzione museale e la sua sperimentazione come «zona di contatto» tra mondi irrelati. La dicotomia tra noi e gli altri, luogo logico della conoscenza antropologica e della rappresentazione museale di tutto il Novecento, è d'altra parte ormai un retaggio del passato e ha lasciato il posto a nuove logiche interpretative, fondate sul dialogo e sull’analisi riflessiva di differenti rappresentazioni del noi.
La mostra [S]oggetti migranti: dietro le cose le persone insiste su questo riposizionamento del museo rispetto alle logiche del moderno (Bouttiaux-Seiderer 2011), lo ridefinisce in termini di opera aperta al divenire storico dell’interpretazione di curatori e fruitori, e riserva un’attenzione speciale al doppio sguardo contemporaneo di chi custodisce il patrimonio e di chi lo riconosce come qualcosa di proprio.
L'itinerario della mostra si articola procedendo dalla Terra Madre che ci ha generato, fino alla Terra-di-qui che oggi ci accoglie, attraversando nel mezzo tempi e luoghi del grande Viaggio che fa la storia delle persone e delle cose che abitano il nostro pianeta, nel quale ci possiamo considerare tutti, da sempre, migranti.
L'esperienza della migrazione è presentata nei suoi risvolti storici ma soprattutto umani e contemporanei, resi più espliciti da un allestimento scenografico che vuole amplificare le possibilità interpretative del tema proposto e dare densità alla pluralità delle prospettive in gioco.
Tra le sezioni della mostra, una in particolare svolge la funzione di vero e proprio Forum di confronto e discussione. Si tratta di uno spazio, intitolato “Idee migranti”, dedicato ad eventi, installazioni e performace ospitate in museo per l'intera durata della esposizione e selezionate attraverso un appello alla partecipazione che, dato il successo conseguito (oltre sessanta proposte) permetterà all'iniziativa di proseguire la sfida del dialogo con la società civile, svelando fino in fondo l'ambizione del progetto di proporsi al pubblico come “opera aperta”.
Poiché il processo che ha portato all'esposizione è la chiave di volta per la comprensione della cornice entro cui essa stessa si è realizzata, la prima parte del percorso illustra le caratteristiche del progetto Read-Me 2 e del lavoro svolto dai musei che dal 2010, in collaborazione con le diaspore, hanno aderito alla rete europea.
Il Musée royal de l’Afrique Centrale di Tervuren (Bruxelles), cui si deve l'ideazione della rete stessa, insieme con le associazioni «Mina aisbl», il «Conseil des Communautés africaines en Europe/section Belgique, Fédération et Organisme de Développement - CCAEB-RVDAGEB-Fed-OD», «Mwinda Kitoko asbl» ha realizzato la sezione della mostra intitolata «Collezione Migrante». La valigia del padre di Elio Di Rupo, giunto a Bruxelles dall'Abruzzo, insieme con il paillon oggi abitualmente indossato dal Primo Ministro belga, oggetti prestati per essere esposti in questa sezione della mostra romana, rappresentano lo spunto per una riflessione sulla ricchezza delle migrazioni vista attraverso il ruolo dell'abito e di particolari tessuti africani come i «pagne» e i «bogolan» per la definizione della propria appartenenza culturale.
Il musée du Quai Branly di Parigi, insieme con l'associazione «Femmes et Contribution au Développement – FECODEV» ha curato la sezione «La partecipazione delle associazioni della diaspora alla vita del musée du quai Branly», dove si presentano le attività del noto e prestigioso Istituto svolte nei quartieri più popolati da residenti di origine africana a ridosso di alcune importanti mostre tenutesi negli ultimi due anni: «Dogon» e “Exhibitions: l'invention du sauvage”.
Il Museum für Völkerkunde di Vienna, infine, insieme con «LMI-LATINO TV” e il “Network of African Associations – NAC” presenta in mostra il suo lavoro intitolato Mitgebracht – Cosa hai portato da casa?: i membri delle comunità viennesi della diaspora sono stati invitati ad inviare al museo fotografie che li ritraessero nell’atto di mostrare oggetti legati alle loro origini, e a raccontare le memorie personali associate.
La sfida della co-progettazione dello stesso allestimento della mostra, in definitiva ha dato all'intero processo una meta comune, che ha permesso tra l'altro di sperimentare forme nuove di esposizione museale.