Silvi Antonini – Le metamorfosi della coscienza
La prima cosa che viene alla mente guardando le fotografie di Silvi Antonini è l’appassionato studio sul corpo – soprattutto sul corpo femminile – portato avanti da Man Ray per tutta la vita.
Comunicato stampa
TESTO CRITICO
C'è una fotografia di Man Ray, del 1922, che ritrae nuda la modella e musa
di artisti Kiki de Montparnasse. Il corpo, teso all'indietro, è inquadrato
leggermente di scorcio, enfatizzando la curva piena delle cosce. Un
panneggio avvolge le gambe dal ginocchio in giù, dando alla figura un vago e
inquietante aspetto di amputazione.
La prima cosa che viene alla mente guardando le fotografie di Silvi Antonini
è l'appassionato studio sul corpo - soprattutto sul corpo femminile -
portato avanti da Man Ray per tutta la vita. I dettagli anatomici di scatti
come Le cou (il collo), dove la figura diventa pura forma nello spazio; i
celebri primissimi piani degli occhi; capolavori di sottile erotismo come La
prière (la preghiera), primo piano di natiche, mani e piedi. Ma anche le
contaminazioni tra corpo e oggetti, come Profil et oeuf (profilo e uovo),
perfetto trionfo di equilibri formali.
Il lavoro di Silvi Antonini parte da lì. E va oltre. Le sue donne
manipolate, deformate, rese irriconoscibili mentre sembrano essere
inghiottite in gorghi spiraliformi di materia, si trasformano in
suggestioni. Perdono consistenza per diventare allusioni, memorie di umanità
che vanno lentamente trasformandosi in qualcosa di fluido e primordiale.
Oppure del corpo l'artista sceglie una sezione - le gambe, i piedi, il
tronco, a volte solo un dettaglio del viso - per enfatizzarla, enfiarla,
riempirla di una materia vivida e pulsante, superumana, e lasciare il resto
in secondo piano, quasi arto atrofizzato e ormai inutile alla nuova specie.
Mentre il ventaglio dei capelli si apre nello spazio a creare fantastici
animali marini, o il piumaggio di un sontuoso uccello alieno.
A volte è il vuoto bianco a dominare lo spazio e la figura appare lontana,
sperduta, appena riconoscibile, tutta concentrata in una battaglia strenua
per non essere ingoiata dal nulla. Altre volte il gesto curvilineo, bloccato
nell'immagine, è il passo di un'antichissima danza propiziatoria, inno
all'amore e alla fertilità, oppure il lento sbocciare di un fiore. E la
sensazione di un movimento fluido (verrebbe da dire liquido) è sottolineata
dalla scelta di accorpare alcuni scatti in trittici, facendoli apparire
quasi dei frame da video.
Ci sono immagini in cui le forme perfette e armoniose della modella riescono
a penetrare la deformazione, a salvarsi, in qualche modo, per arrivare fino
allo spettatore. E restano lì, come una nostalgia. E allora la sensazione è
quella di una velata critica sociale - appena sottotraccia - al sistema
della bellezza a tutti i costi, una voluta e crudele protesta contro la
legge dell'apparire. Ma la sensazione dominante davanti ai lavori
dell'artista è quella di una sorta di idolatria del corpo femminile in
quanto tale. Della morbidezza e dell'armonia capaci di farsi danza di forme.
Declinati in pastosi toni seppiati, ammantati di un'atmosfera senza tempo, i
dettagli anatomici più segreti si ingrandiscono fino a occupare tutto lo
spazio, facendosi irriconoscibili, illeggibili, e comunicando un erotismo
appena sussurrato, un turbamento spiazzante.
E poi, qualche volta, il dettaglio anatomico appare in seconda battuta, come
un ospite, e lo spazio è dominato da una materia ambigua che sembra terra,
natura, forza vegetale, ma anche potenza aliena, lunare. Come nei grovigli
di radici che fanno subito pensare al buco nel quale cadde Alice per entrare
al Paese delle Meraviglie. O come nel gorgo di terra e muschio che si apre
all'improvviso - terribile e ipnotico - e sembra voler inghiottire lo
spettatore. Sembra proprio di avvertire nelle narici l'odore pungente e
umido del sottobosco, delizioso e vagamente marcescente, e solo le due mani
femminili che spuntano dai lati regalano una minima speranza di salvezza.
Alessandra Redaelli