Claudio Pintapiuma Ruggieri – Quinta fase
Opera aperta e totale, in un certo senso, quella di Pintapiuma, nella sua ambizione di accogliere influssi e nutrimenti diversi e di ricollocarsi sempre, secondo le regole di una ars combinatoria leibniziana o mallarmeana, in nuove posizioni e configurazioni.
Comunicato stampa
La grande estasi del pittore Pintapiuma
di Fabrizio Bonci
Karol Kerényi osservava che in un labirinto esiste sempre una via di uscita e un percorso per raggiungerla. Cammino compiuto di salvezza di chi sa attraversare, superandolo, il centro del labirinto o cammino incompiuto di chi ritorna sui propri passi condannandosi all'infinita iterazione dell'errore, alla dannazione del vagabondaggio che si smarrisce nella ripetizione e nell'inconcludenza. Esiste, tuttavia, un secondo tipo di labirinto, differente da quello classico, in cui le ramificazioni e gli incroci si moltiplicano secondo il piano mai interamente definito di una complessità crescente. E come si moltiplicano i plessi e le pieghe del labirinto, così si moltiplicano i punti di accesso, i centri e le vie d'uscita del labirinto. A questo secondo tipo di labirinto, definito da Deleuze e Guattari come rizomatico, si deve forse pensare quando, da un punto o dall'altro, si entra nell'opera del pittore e gallerista genovese Claudio Ruggieri, alias Pintapiuma, che nel corso di tre decenni, che lo hanno visto collaborare con artisti come Not Vital, Peter Nagy, Giovanni Rizzoli, Rossana Campo e Simonetta Fadda, ha moltiplicato i percorsi e le prospettive – per riprendere un concetto della filosofia leibniziana –, tracciando un itinerario complicato e complesso, che si snoda, con la sua pluralità di cammini, in una geografia perturbata dalle forze erosive di una dinamica poetica mai esaurita e cristallizzata in forme compiute e inalterabili. Itinerario non cartesiano, della ramificazione piuttosto che della linea retta, metodo, inteso nel suo senso etimologico di cammino, in cui all'hodós, alla via, si sostituiscono le vie, i cammini, che il visitatore della presente mostra è chiamato a ripercorrere, orientandosi con l'ago della propria bussola e il lume delle proprie costellazioni.
Opera aperta e totale, in un certo senso, quella di Pintapiuma, nella sua ambizione di accogliere influssi e nutrimenti diversi e di ricollocarsi sempre, secondo le regole di una ars combinatoria leibniziana o mallarmeana, in nuove posizioni e configurazioni. E, allo stesso tempo, nel segno della pianta epifita, metafora vegetale che raccoglie alcuni dei concetti e delle opposizioni chiave della poetica dell'artista – gli elementi empedoclei dell'aria e dell'acqua, l'umido e il secco, l'idrofilo e l'idrofugo, la terra e la radice che sa fare a meno del supporto e del legame con la terra –, opera parassitaria e, nelle sue intenzioni, potenzialmente distruttrice dell'impianto statico e cementificato che, in uno scritto introduttivo alla mostra, Pintapiuma definisce come "il sistema dell'arte". In questo aspetto che si potrebbe definire paranoide dell'opera di Pintapiuma, che ritorna e si esemplifica nella scansione numerica in cinque fasi del suo lavoro, proposta dall'artista nello scritto, carico di suggestioni e di implicazioni, di cui dicevamo, ritroviamo quel senso della complessità e della pluralità del rizoma deleuziano. Paranoia come coerenza che non è vera coerenza, ma, al medesimo tempo, come incoerenza che diviene coerenza, nel momento in cui deve confrontarsi con le infinite pieghe della complessità. Camminare, voltarsi e tornare sui propri passi, per scoprire che sono altri passi, altri cammini, e poi riprendere a camminare in una nuova direzione, per ritrovare direzioni che abbiamo già seguito e strade che avevamo smarrito. Abbandonandosi, se necessario, al caso e all'arbitrio del lancio di dadi, al principio aleatorio che regola la formazione e la dissoluzione delle nostre vite.
E poi, al fondo dei meandri e delle circonvoluzioni senza fine, laggiù dove dovremmo trovare noi stessi, il premio e la consolazione dell'estasi e della consumazione, dell'aver abbandonato se stessi e di essere divenuti il proprio cammino.