Mario Nalli – Terre inviolate
Mario Nalli presenta venti lavori sul tema del paesaggio. Sono riconoscibili distese di dune, altipiani, terre inviolate, allucinate per via di un cromatismo acceso, dal viola al blu al fucsia. Il procedimento applicato ai paesaggi consiste in un colore spalmato delicatamente fino a creare forme sinuose dalle linee simili a striature di un pettine.
Comunicato stampa
Il processo della pittura
Prima dell’estate non mi sfiorava nemmeno lontanamente l’eventualità di una mostra personale di Nalli a l’Attico. Sapevo bene (chi meglio di me) che aveva smesso di dipingere venti anni fa, gettando inopinatamente alle ortiche quel che già si era costruito con le sue mani: una mostra d’esordio nella mia galleria, che per molti giovani artisti rappresenta un agognato trampolino di lancio. Non erano affatto banali quei suoi dipinti, tutti rigorosamente dal fondo viola, dov’erano incise, come solchi scavati da un punteruolo, le silhouettes bianche, vibranti, di strumenti musicali: trombe, clarinetti, violini, violoncelli. C’erano altri soggetti, trattati con la stessa tecnica scarnificata, quali altalene dondolanti, libri sfogliati dal vento. Un Nalli ossessionato dal movimento non poteva non rifarsi al dinamismo futurista, sia pure a modo suo, con una propensione cioè a togliere peso all’immagine, scontornando l’oggetto, sacrificando il volume al segno, fino alla definizione per l’appunto di una silhouette bianca stagliata in campo viola.
Issatosi a quest’ottimo livello, vi chiederete, e anch’io tuttora me lo chiedo, perché vent’anni fa costui smise di dipingere? Lui stesso non sa darsi una risposta plausibile. Certe difficoltà materiali (per un giovane artista metter su famiglia troppo presto è un grave handicap) non spiegano una rinuncia autolesionista di tale portata. Comunque sia, Nalli sparì.
Pagine sfogliate dal vento: questo l’ultimo soggetto da lui dipinto prima di piantare la pittura in asso. E da qui, incredibilmente, il nostro rapporto è ripartito. Vale la pena di raccontarlo. Un paio di anni fa, per la presentazione di un libro, mi venne l’idea di utilizzare per il cartoncino d’invito un suo disegno sepolto con altri in una cassettiera. Quel cartoncino d’invito, con l’immagine di un libro al vento, è stato il segnale per Nalli, caduto per l’amarezza in profonda depressione, che ancora pensavo a lui. Sono sincero, l’avevo dato per spacciato. E invece, prima dell’estate, umilmente Mario si è ripresentato a me con delle operine, quadretti ad olio, sia su tela che su carta. Caspita! In quei piccoli formati balzava all’occhio una nuova tecnica, quasi illusionistica. I fogli ora parevano fluttuare su un fondo striato come su un tappeto a losanghe orizzontali. C’erano anche certe carte minuscole, alle quali lui non dava eccessiva importanza, raffiguranti paesaggi inviolati, distese di dune, altipiani. Essi, pur riconoscibili, apparivano allucinati per via di un cromatismo acceso che richiamava il viola dei primordi, con tutte le sue declinazioni dal blu al fucsia. Gli dissi: “Metti da parte per ora il soggetto delle pagine al vento. Prova piuttosto a trasformare questi paesaggi lillipuziani in quadri molto grandi”. Trascorso un mese ho deciso senza indugio di offrirgli a distanza di venti anni una seconda personale: i risultati erano impressionanti.
Se il segno bianco che scontornava un tempo violini, libri e altalene era ottenuto scarnificando l’epidermide viola della tela, ora il procedimento applicato ai paesaggi appariva più soft. Il colore depositato sulla superficie del quadro viene spalmato delicatamente fino a creare forme sinuose, dalle linee simili a striature di un pettine. L’approccio è cambiato, ma il movimento resta un punto fermo della rappresentazione, ciò che conferisce alla superficie dipinta una brillantezza paragonabile alla definizione digitale. La scarnificazione ha ceduto il passo alla carezza. Non so di quali utensili si giovi Mario nell’esecuzione dell’atto pittorico. Certo non il pennello, cioè il tramite classico con il quale la mano appone solitamente il colore sulla tela. In Nalli, come anche in Montani, il pittore con cui ho più lavorato recentemente, il gesto consiste nell’orientare il colore deposto già sulla tela. Non è la mano armata di pennello che compie un tragitto da e verso il quadro. Il colore è già lì che attende l’orchestrazione del gesto e lo ingloba. Il coinvolgimento del pittore non è devoluto alla maestria della singola mano. L’apporto del corpo è totale e procede assieme al lavorio della mente.
Non c’è dubbio, almeno per me, che la pittura più innovativa oggi sia quella dove il procedimento, vale a dire modi e tempi con cui ci si rapporta ai materiali pittorici, svolge un ruolo determinante. Del resto fui io a coniare nei primi anni ’90 per una collettiva a l’Attico di artisti inglesi e italiani (Barzagli, Davenport, Fabiani, Innes, May) la definizione di Process Painting, poi adottata come corrente pittorica in Inghilterra. Pittura processuale, dunque, che ci riporta indietro nel tempo, all’esperienza di un Pollock, di un Klein. “Il colore è colore, la tela è tela…” dice a un certo punto l’attore che impersona il critico Clement Greenberg in quel bel film su Pollock interpretato da Ed Harris. Si riferiva all’arte americana di allora, Abstract Expressionism e Action Painting, certo. Ma la pittura odierna, a tutte le latitudini, iconica o non, che lancia una sfida alla tecnologia non può non ripartire anch’essa dal ripensamento dei suoi elementi basici.
Roma 29 ottobre 2012 Fabio Sargentini