In the Wintry Thicket of Metropolitan Civilization

Informazioni Evento

Luogo
AR/GE - KUNST GALLERIA MUSEO
Via Museo 29, Bolzano, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

Ma-Ve 10 – 13, 15 – 19 / Sa 10 – 13

Vernissage
16/11/2012

ore 19

Biglietti

ingresso libero

Patrocini

Con il gentile sostegno:
Provincia Autonoma di Bolzano, Alto Adige, Deutsche Kultur
Fondazione Cassa di Risparmio, Alto Adige
Città di Bolzano, Ufficio Cultura
Ministero di Cultura, Taiwain

Artisti
Mores McWreath, Pietro Mele, Basim Magdy, Yin-Ju Chen, James T. Hong, Camilo Yáñez
Curatori
Luigi Fassi
Generi
arte contemporanea, collettiva

La mostra raccoglie le esperienze artistiche di cinque artisti di diversi continenti che hanno riflettuto nel loro lavoro su temi legati all’urbanesimo e alla storia degli inurbamenti metropolitani.

Comunicato stampa

In the Wintry Thicket of Metropolitan Civilization
Nella selva invernale della civiltà metropolitana

Basim Magdy (Egitto), Mores McWreath (USA), Yin-Ju Chen & James T. Hong (Taiwan), Pietro Mele (Italia), Camilo Yáñez (Cile)

Inaugurazione, Venerdì 16.11.2012 alle ore 19

16.11.2012 – 12.01.2013
A cura di Luigi Fassi

In the Wintry Thicket of Metropolitan Civilization prende il titolo da un omonimo passaggio contenuto in The Culture of Cities il primo libro di Lewis Mumford, pubblicato nel 1938. Le analisi appassionate di Mumford univano la forza della militanza a quella della lucidità teorica, nel tentativo di ripensare l’urbanistica come una pratica profondamente umanistica, capace di guidare la progettazione delle città a partire da un insieme di valori civili e progressisti. The Culture of Cities è così la formulazione di un insieme di progetti e speranze declinate nel concreto di una pratica progettuale volta a rivolgere l’attenzione sulle città come centri decisivi del vivere civile nel mondo del XX secolo e del futuro prossimo.
La mostra raccoglie le esperienze artistiche di cinque artisti di diversi continenti che hanno riflettuto nel loro lavoro su temi legati all’urbanesimo e alla storia degli inurbamenti metropolitani. Tra il passato recente e un futuro immaginato, le opere riverberano liberamente l’enigmatico senso del titolo che nelle intenzioni di Mumford esprimeva un allarme, ma al tempo stesso l’urgenza di uno sprone a rinnovare lo spazio abitativo dell’uomo a partire dal suo luogo di aggregazione e condivisione da sempre più importante e decisivo: quello delle città.

My Father looks for an honest city (2010) di Basim Magdy mostra uno scenario desolato, quello delle periferie in espansione del Cairo, segnato da edifici anonimi in costruzione, strade in terra battuta e cani randagi. Luogo di transizione tra il cemento e la vegetazione spontanea, non ancora completamente urbanizzato e al tempo stesso non più rurale, il sito è percorso lentamente dal padre dell’artista che regge in pieno giorno una lampada accesa, esplorando il territorio senza una finalità manifesta. È evidente il riferimento dell’opera alla figura di Diogene il cinico che provocatoriamente “cercava l’uomo” sorreggendo una lampada mentre vagava in pieno giorno per i mercati di Atene. Mediante questo gesto paradossale Diogene suscitava una critica radicale sulla capacità dei suoi concittadini di assumere una partecipazione attiva alla loro realtà sociale senza essere solo vacue comparse. Il re-enactment filosofico di Magdy opera in termini intuitivi una medesima sollecitazione, affidando ai gesti minimi del padre la capacità di leggere un territorio anonimo in termini analitici, interrogandosi sul destino del Cairo e dell’Egitto contemporaneo.

You Have never Been There (2010) di Mores McWreath è un film di 90 minuti, composto assemblando liberamente scene tratte da 120 film che hanno raccontato e tematizzato la fine della civiltà umana in termini apocalittici. L’artista ha selezionato scene in cui si alternano con evidenza, paesaggi urbani e naturali devastati, segnati dai regesti della civiltà occidentale e da un presente di disfacimento e dissoluzione. In tal modo L’opera è un ritratto della civiltà occidentale successivo alla sua fine, la descrizione per immagini di un’autodistruzione progressiva in cui l’estetica della cinematografia è sottratta dall’artista alla fiction per diventare documento reale, prova testimoniale e archivio ante litteram di un probabile scenario futuro.

In End Transmission (2010) di Yin-Ju Chen & James T. Hong immagini in bianco e nero di siti metropolitani in successione compongono un paesaggio indecifrabile, caratterizzato da un senso di sorveglianza e asservimento. I messaggi che appaiono a intermittenza dettano il nuovo programma di gestione del pianeta da parte di entità aliene indefinite. Dai contenuti imperativi dei testi si evince che l’umanità ha fallito ed è necessario un radicale intervento di palingenesi da parte di un potere esterno. Questa suggestione da science-fiction è supportata da immagini autentiche di piattaforme industriali, sconfinate metropoli notturne, serre artificiali e masse di merci da consumo pronte per l’esportazione. Girate dal vivo tra l’Europa e l’Asia, le scene di Yin-Ju Chen e James T. Hong alludono alle trasformazioni in corso dei grandi contesti metropolitani contemporanei e delle produzioni industriali su grande scala, lasciando affiorare una drammatica immagine dell’alienazione della vita e del lavoro contemporaneo su scala globale.

Partendo da una ricerca localizzata sulla micro realtà della Sardegna contemporanea, l’italiano Pietro Mele porta avanti una riflessione critica sulla traumatica modernità che è stata imposta al mondo agropastorale dell’isola. Ottana (2008) prende il titolo dall’omonima cittadina nell’area della Barbagia dove a partire dagli anni Sessanta è sorto un gigantesco polo petrolchimico di devastante impatto ambientale. L’opera racconta il compromesso stridente tra il mondo della grande produzione industriale e la quotidianità degli operai che mantengono sin alle porte della fabbrica tradizioni e usanze residuali proprie di un mondo ormai prossimo all’estinzione. L’urbanizzazione e il lavoro industriale appaiono nell’opera di Mele un incubo calato da altrove, una mostruosa allucinazione visiva che si staglia sullo sfondo del paesaggio rurale sardo, attraversato all’alba dagli operai in fila a cavallo verso la fabbrica.

Protagonista di Estádio Nacional (2009) di Camilo Yáñez è la città di Santiago, colta nelle vicende drammatiche degli ultimi decenni. Il film è stato girato dall’artista l’11 settembre del 2009 nello Stadio Nazionale di Santiago del Cile, luogo chiave della storia cilena contemporanea. In particolare lo stadio è entrato nella memoria collettiva del Paese in seguito al colpo di stato occorso proprio l’11 settembre del 1973, quando il generale Pinochet con l’appoggio degli Stati Uniti destituì il governo democraticamente eletto di Salvatore Allende. Nei giorni convulsi successivi al colpo di stato lo stadio divenne un luogo di prigionia dove vennero assassinate oltre 3000 persone dalle forze della nuova dittatura militare. Girato il film all’interno dello stadio vuoto e accompagnato da una celebre canzone del repertorio nazionale cileno, Estádio Nacional è un omaggio alla storia cilena, al tempo stesso un’elegia funebre in memoria delle vittime del colpo di stato del ‘73, ma anche un rilancio in avanti della speranza, in un luogo che ha visto alternarsi le speranze e i drammi sociali più cupi del popolo cileno.

In the Wintry Thicket of Metropolitan Civilization

With Basim Magdy (Egypt), Mores McWreath (USA), Yin-Ju Chen & James T. Hong (Taiwan), Pietro Mele (Italy), Camilo Yáñez (Chile)

Opening, Friday, 16.11.2012, 7 p.m.
16.11.2012 – 12.01.2013

Curated by Luigi Fassi

In the Wintry Thicket of Metropolitan Civilization refers to an eponymous passage from The Culture of Cities, the first book by Lewis Mumford, published in 1938. His fervid analyses connected the militant power and intellectual lucidity of the attempt to rethink urban development with a profound humanist approach. Thus, the Culture of Cities was the formulation of numerous urban projects and hopes, which were defined within the concrete aspect of a planning praxis that aimed to place attention on the role of cities as decisive centres of contemporary living, in the civilisation of the 20th century and the near future.

The exhibition gathers together the artistic experiences of five artists deriving from different continents who reflect in their work on various topics related to urbanism and the history of urban development. Between the recent past and an imagined future, the works freely echo the enigmatic sense of the title, which according to Mumford was meant as an alarm signal, but at the same time also an urgent need to rethink the concept of human living space, starting with the most important and decisive place of aggregation and collective occupation: namely, the city.

My Father Looks for an Honest City (2010) is a film by Basim Magdy which shows the desolate location of the periphery of Cairo in expansion, marked by anonymous buildings under construction, water-logged streets and stray dogs. As a place of transition between cement and wild plant growth – not yet totally urbanized but at the same time no longer rural – the site is slowly traversed by the artist’s father, who holds in his hands a shining lamp in broad daylight, exploring the territory without any clear aim. Within this work, the reference to Diogenes the Cynic, who provocatively “searched for an honest man” by holding up a lamp in daylight while strolling through the markets of Athens, is clear. Through his paradoxical gesture, Diogenes brought about a radical critique on his fellow citizens’ lack of a more responsible role regarding their social reality. The philosophical re-enactment staged by Magdy evokes the same suggestion in intuitive terms, conferring to his father’s minimal gesture the capacity of reading an anonymous territory in analytical terms. He thus poses questions on the destiny of Cairo and contemporary Egypt.

You Have Never Been There (2010) by Mores McWreath is a 90 minute-long film that freely assembles scenes from 120 different films that have addressed the end of human civilization in apocalyptic terms. The artist has selected scenes in which passages showing devastated urban and natural spaces evidently alternate, marked by the remains of Western civilization and a present reality of decline and dissolution In this way You Have Never Been There is a portrayal of Western civilization after its demise. It is an allegorical description of progressive self-destruction, in which the aesthetics of cinematography as a means of fictional narrative is removed by the artist in order that the scenes become an actual documentary, as evidence presented in advance of a probable future scenario.

End Transmission (2010) by Yin-Ju Chen & James T. Hong is a film of black and white images of metropolitan areas succeeding each other compose an indecipherable landscape, characterized by a sense of surveillance and enslavement. The messages that appear discontinuously throughout dictate the new program of administration of their planet by an indefinite alien entity. From the imperative contents of the texts it is deducible that humanity has failed and that a radical intervention of palingenesis by an extraterrestrial power has been necessary. This science fiction suggestion is supported within the rigorous cinematography of the two artists by authentic images of industrial platforms, endless views of megacities by night, artificial greenhouses and mass consumption ready for export. Shot between Europe and Asia, the scenes of Yin-Ju Chen and James T. Hong allude to the current transformations of the great contemporary metropolitan contexts and industrial production on a large scale. In this way they allow a dramatic image of the alienation of our life and of contemporary work on a global scale to emerge.

Beginning with research in the micro-reality of present-day Sardinia, the Italian artist Pietro Mele presents a critical reflection on the trauma of modernity which was imposed on the pastoral life of the island. Ottana (2008) is the title of his film and also of an eponymous small town in the area of Barbagia, where from the 1960s onwards a giant petrochemical industry with devastating environmental impact has been created. The work speaks of the blatant compromise between the world of heavy industrial production and the everyday life of the workers that maintain – as far as the factory gates – their traditions and residual customs that seem to belong to an almost extinct world. Urbanization and industrial work appear within Mele’s work as a nightmare deriving from somewhere else, a monstrous visual hallucination that places against the rural background the image of the Sardinian workers trudging in a row towards the factory.

The focus of Estádio Nacional (2009) by Camilo Yáñez is the city of Santiago de Chile and the dramatic events it was witnessed in recent decades. The film was shot by the artist on 11 September 2009 in the National Stadium of Santiago, a key place in the contemporary history of Chile. The stadium entered the collective memory of the nation after the coup d’état of 11th September 1973, when General Pinochet liquidated with the support of the US government the democratically elected government of Salvador Allende. In the turmoil of the days following the military‘s seizure of power, the stadium became a prison camp where over 3,000 people were killed by the forces of the newly-established military dictatorship, as official sources document. Yáñez shot the film inside the empty stadium, accompanied by a famous song from the national Chilean repertoire. Thus, Estádio Nacional is a tribute to the history of Chile and at the same time a funeral elegy commemorating the victims of the coup d’état of 1973, but also an invocation of hope in a place that has alternatively witnessed the most dramatic hopes and the most sinister events in the history of the Chilean people.