Ogni uomo è un’isola
L’impresa delle scoperte parte da sé, ci racconta Saramago, e il percorso nell’autocoscienza non può prescindere dal confronto con l’infanzia, ce lo insegna la psicoanalisi, ce lo ricorda la letteratura. È l’indissolubile rapporto tra l’uomo e il sé stesso bambino, dunque, a guidare la ricerca che sottende e sviluppa la mostra, nel tentativo di individuare quella linea di confine tra “identificazione” e separazione, quale punto di partenza per la costruzione di una giusta distanza percettiva.
Comunicato stampa
Ogni uomo è un’isola
di Federica La Paglia
“[…]diceva che ogni uomo è un’isola, ma io, siccome la cosa non mi riguardava visto che sono una donna, non gli davo importanza, voi che ne pensate, Che bisogna allontanarsi dall’isola per vedere l’isola, e che non ci vediamo se non ci allontaniamo da noi, Se non ci allontaniamo da noi stessi, intendete dire, Non è la medesima cosa.[…]”.
(José Saramago, Il racconto dell’isola sconosciuta).
L’impresa delle scoperte parte da sé, ci racconta Saramago, e il percorso nell’autocoscienza non può prescindere dal confronto con l’infanzia, ce lo insegna la psicoanalisi, ce lo ricorda la letteratura. La parte più profonda dell’uomo - che, in quanto tale, s’insinua tra le pieghe del suo agire presente - è elemento costituente e condizionante l’identità, qui percepita come “commistione stratificata” dell’io (bambino e adulto).
È l’indissolubile rapporto tra l’uomo e il sé stesso bambino, dunque, a guidare la ricerca che sottende e sviluppa la mostra, nel tentativo di individuare quella linea di confine tra “identificazione” e separazione, quale punto di partenza per la costruzione di una giusta distanza percettiva. Nel dialogo tra le opere proposte si muove proprio la costante tensione tra questa condizione dell’essere e il tentativo di “allontanarsi dall’isola”, sottolineata pure dalla circolarità contraddittoria dell’esperienza umana.
Gli artisti lasciano affiorare questa duplicità e l’emersione della memoria di ciò che si è stati e si continua ad essere, sia quando l’infanzia appare nella sua irriducibilità - in Elena Nonnis ma soprattutto in Iginio de Luca -, sia laddove ve n’è la riaffermazione attraverso una proiezione esterna, come nel caso di Marina Ballo Charmet e di Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini.
Nel video Se penso a quel giorno di Iginio de Luca emerge il “fanciullo musico” di pascoliana memoria, che fa sentire il suo “tinnulo squillo come di campanello” , facendo intravedere nell’uomo le stesse paure e timidezze del piccolo che, quarant’anni prima, inventò e cantò la canzone. L’opera, profondamente melanconica, proietta il fanciullo nel mondo dei grandi (il canto dell’amor perduto sembra a tratti maturo) e, viceversa, fissa il legame dell’uomo doppiatore al suo sentire bambino. Nel lavoro di de Luca le due età sembrano vasi comunicanti, più evidenti nella serie ioio in cui l’artista, sostituendo in vecchie foto il proprio volto a quello del padre, diviene il genitore di sé stesso. Dentro e fuori di sé, capace di vedere e di accudire quel bimbo che guida il suo sentire, in un rapporto esclusivo che si vena di solitudine e consapevolezza, e che trova un preludio nel ritratto del piccolo Iginio, interrogato (cheddici?), intimidito e fisso tra due ombre, la sua proiezione e quella del padre di fronte a lui.
Diversamente, nel lavoro di Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini emerge una riappropriazione dell’infanzia attraverso il confronto con l’esterno. Sono i bambini nel mondo a risvegliare in loro quel vissuto. Con E adesso che sei arrivata tu la nostra prospettiva si è nuovamente capovolta gli artisti, grazie alla genitorialità, raccontano un cambiamento di prospettiva che, se da una parte allude ad una novità, dall’altra rimanda a personali memorie. La rappresentazione speculare, che ricorda le figure dei tarocchi, infatti solletica l’idea dell’immagine del doppio di sé, in cui la testa della bambina (la prospettiva) è raffigurata all’altezza delle gambe degli adulti (le fondamenta).
Nel video Gita al faro gli artisti si abbandonano completamente alla guida di alcuni bimbi, che li accompagnano alla scoperta della città. I grandi sono bendati, completamente sottoposti alle scelte dei piccoli con cui istaurano una comunicazione intima e sottile. E così la scoperta del luogo conduce ad una riscoperta di sé, mediata dal recupero di esperienze dimenticate o nascoste, portate alla luce dagli occhi e racconti altrui.
Come ne Il racconto dell’isola sconosciuta il vero luogo fisico si rivela essere lo spazio interiore, quello che pure nel lavoro di Marina Ballo Charmet emerge attraverso la percezione di un ambiente esterno, filtrato dalla vista altrui. Ma in questo caso è lo sguardo dell’artista a condurre alla scoperta, che non è graduale ma arriva come un colpo diretto all’emotività dello spettatore. Marina sceglie la prospettiva visiva di un bambino per condurre la sua indagine sul rapporto tra visione e percezione, così da riappropriarsi dello sguardo perduto sul mondo, al contempo facendo rifluire la dimensione infantile del fruitore della sua opera. Dunque, il protagonista della serie Il parco è proprio l’io bambino dell’osservatore, mentre l’artista diventa medium, capace di stimolare il mondo intimo dell’altro, rendendolo parte integrante di un panorama, per questo, in qualche modo ogni volta mutevole.
L’io narrante è invece il centro del lavoro di Elena Nonnis, tradotto in una costellazione di momenti che riconducono circolarmente l’adulto alla sua dimensione infantile. È un insieme di tele ricamate al rovescio, tutte tranne l’immagine di lei lattante, l’unica chiara e definita, di contro alle altre apparentemente incompiute, sfilacciate, punteggiate di suture e nodi. Sono Ex volti privi di espressività, la sola eccezione è proprio la Bimba al centro, l’unica ricamata al dritto e che in qualche modo assomma tutti, compresa l’Elena adulta (Parigi), distante dal gruppo ma totalmente dentro la sua storia d’infanzia.
Il lavoro dell’artista appare come un’autobiografia, che dunque ne denuncia la dicotomia tra istinto e ragione dacché l’esercizio del racconto, implicando una volontà di oggettivare, già esprime l’azione stessa dell’allontanamento necessario alla scoperta/conoscenza di sé di cui parla il personaggio di Saramago.
E così l’azione del rappresentarsi – in Nonnis mediata dal filo – ci appare proprio come un segno di quel limite tra “identificazione” e separazione dall’isola.