Gianfranco Zappettini
Nella personale alla Galleria Allegra Ravizza di Lugano, le opere proposte esemplificano alcuni momenti della ricerca di Zappettini, offrendo all’osservatore alcune possibili risposte a tali quesiti, e invitandolo a valicare le proprie capacità di percezione e di attenzione di fronte al quadro.
Comunicato stampa
Quanto profonda può essere una superficie? Quanto può nascondere e svelare un quadro in cui il colore bianco appare l’unico protagonista? Qual è il grado zero e qual è il fine ultimo della Pittura? In oltre cinquant’anni di carriera, Gianfranco Zappettini ha cercato e ancora oggi continua a cercare le risposte a queste domande. La sua ricerca ha toccato i campi della linguistica negli anni Settanta e della metafisica nei decenni a noi più vicini, avendo come obiettivo una pittura che non necessitasse di null’altro che se stessa, come linguaggio autonomo e come simbolo carico di valenze superiori.
Nella personale alla Galleria Allegra Ravizza di Lugano, curata da Marco Meneguzzo, le opere proposte esemplificano alcuni momenti di questa ricerca, offrendo all’osservatore alcune possibili risposte a tali quesiti, e invitandolo a valicare le proprie capacità di percezione e di attenzione di fronte al quadro.
Per Zappettini la Pittura è un linguaggio vero e proprio, capace come tutti i linguaggi di esprimere una definizione del mondo circostante, dell’arte e al contempo di se stesso nei propri elementi di base: il colore, la superficie e le modalità con cui questi due elementi entrano in contatto.
I “bianchi” e le “tele sovrapposte” hanno costituito quarant’anni fa due dei pilastri della Pittura Analitica, quella situazione europea nata e sviluppatasi a cavallo tra Italia e Germania e che coinvolse anche artisti da Francia, Paesi Bassi e Inghilterra: attraverso opere e scritti teorici, Zappettini chiarì come la Pittura doveva ripartire, dopo l’avvento di Concettuale e Arte Povera, da un “grado zero” per ritrovare la propria ragion d’essere e reagire a chi ne proclamava avventatamente la presunta “morte”.
Negli anni Duemila Zappettini ha saldato il vuoto, ricercato pazientemente in anni di indagine interiore, alla propria continua analisi della Pittura, riscoprendo così il ruolo della Pittura come parte della Tradizione e ricettacolo da sempre privilegiato di simboli e dei molteplici significati cui essi rimandano. Dalle possibilità metafisiche del blu della notte cosmica e del Non Manifestato, l’artista ha ritrovato il colore bianco come simbolo invece della Manifestazione, passando attraverso il rosso della gnosi e della passione. Con le “reti sovrapposte”, presentate per la prima volta nella personale di Lugano, l’indagine di questi ultimi quindici anni sulla (apparente) dualità di trama e ordito – verticalità e orizzontalità, nell’eterno viaggio della spola sul telaio – il maestro italiano raggiunge un ulteriore livello di essenzialità e rigore.
Come la Pittura negli anni Settanta era indagata da Gianfranco Zappettini attraverso un meticoloso processo di lavoro in cui il pittore deve annullarsi per lasciare l’opera unica protagonista, così negli ultimi lavori la Pittura diventa metodo quotidiano, tramite il quale l’uomo si arrende all’armonia cosmica ed estingue il proprio io nel perenne, alchemico tentativo di realizzare l’Opera per eccellenza.
Testo di Alberto Rigoni - per la Fondazione Zappettini