Fotografia Cucita
La sua particolarità risiede nell’aver accostato artiste di nazionalità diverse, rispettivamente svizzera, austriaca, tedesca, accomunate dalla fotografia con intervento di cucito a macchina, a partire, tuttavia, da motivazioni differenti.
Comunicato stampa
"Eppure, tutti gli accenti si spostano se, invece di considerare la fotografia in quanto arte, si considera l’arte in quanto fotografia”.
Walter Benjamin
Da Piccola storia della fotografia, Giulio Einaudi editore, 1966,Torino, traduzione di Enrico Filippini.
Nel segno del femminile si inaugura, il 7 marzo dalle ore 18 alle 22, alla Galleria Whitelabs di Milano la mostra di Fotografia Cucita delle tre artiste mitteleuropee Stefania Beretta, Iris Hutegger, Annegret Soltau, a cura di Viana Conti con Nicola Davide Angerame. La sua particolarità risiede nell’aver accostato artiste di nazionalità diverse, rispettivamente svizzera, austriaca, tedesca, accomunate dalla fotografia con intervento di cucito a macchina, a partire, tuttavia, da motivazioni differenti. L’esito, non trascurabile, di questo particolare processo di impunturazione è che l’opera risulta, con tutte le implicazioni che comporta, non esclusa l’unicità dell’aura di memoria benjaminiana, un pezzo unico. Annunciandosi come Photographie En Pointure, il titolo della mostra prende come referente mitico di impuntura quella all’orlo delle Souliers de van Gogh, dipinto del 1886. Ma c’è dell’altro. Questo dipinto di van Gogh viene preso come esempio da Martin Heidegger nel suo saggio L'origine dell'opera d'arte. In relazione al senso con cui Heidegger intende il soggetto scarpe, sorge una vivace polemica con lo storico dell'arte e studioso dell'opera di van Gogh Meyer Schapiro. Ad una così acuta e stimolante disputa non manca di associarsi il filosofo francese Jacques Derrida, prendendo una posizione critica verso le tesi di Heidegger nel suo testo La verità in pittura, divenuto poi Restitutions. - De la vérité en pointure. Questa sottile variazione derridiana del termine pittura in puntura si attaglia perfettamente alla forma di fotografia esposta, che viene impunturata, dalle tre artiste, con la punta dell’ago della macchina da cucire. La presenza del filo non cessa di rinviare alle metafore della tessitura come espressioni della marginalità del lavoro femminile, facendo affiorare dal mito figure della cultura occidentale come Arianna, Aracne, Ananke, Penelope.
In Stefania Beretta (nata a Vacallo, Ticino, nel 1957, vive a Verscio, Svizzera) l’idea del Paesaggio improbabile scaturisce dall’incontro di due inconsci macchinici: quello dell’apparecchio fotografico e quello della macchina da cucire. Attraverso il filtro visivo dell’artista, la mediazione della macchina fotografica e di quella da cucire, attraverso i segni impunturati sulla pelle della stampa analogica, della stessa sua pelle, ferita e rimarginata, l’autrice formalizza una nuova realtà, fatta di una scrittura di sogni e incubi, di fili di perle iridescenti e di spine acuminate, di riflessioni e di emozioni provenienti dal profondo. Brighton, Seven Sisters, Dover, Bogliasco, un bosco, sono solo nomi, appunti della memoria, echi di risonanze nel vuoto, ritmate dallo scorrere del tempo, che ritornano come fantasmi, che perdono le identità del luogo d’origine per acquisire connotazioni mentali scaturite da un immaginario senza barriere geografiche o linguistiche, aperto al contrario all’interiorità del soggetto, alle fascinazioni naturali, materiche, dell’ambiente, di una terra in cui scorre una vita segreta. Stefania Beretta, dedita al viaggio in India, come sospensione temporanea della vita d’azione in Occidente per entrare in quella della meditazione in Oriente, trasmette nell’opera la dimensione intima di un rituale che diventa, nel racconto visivo, partecipazione, memoria e testimonianza. I piani verticali e orizzontali di una cattedrale dove l’immaginazione sale, scende, staziona, inventano un percorso di impunture, sinesteticamente armoniche e melodiche, che agiscono come un trait d’union tra il cielo e la terra, tra il visibile e l’invisibile.
Stefania Beretta, Paesaggi Improbabili Stefania Beretta, Paesaggi Improbabili
Nel processo operativo di Iris Hutegger (nata nel 1964 a Schladming in Austria, vive e lavora a Basilea, Svizzera) lo scatto analogico sul paesaggio, prevalentemente di alta montagna - figura dell’origine, di una visione primaria, per l’artista – è finalizzato alla tensione tra un primo contatto con la realtà e la successiva ricostruzione di una dimensione astratta e atemporale dello scenario di natura. Chi non ricorda, in montagna, le fioriture dei rododendri, i verdi vellutati dei muschi, quelli azzurrati dei licheni? È creando un vuoto, un’assenza, che questa artista mette in moto la memoria emozionale dell’osservatore, attiva effetti di riconoscimento di luoghi costruiti dalla mano, dalla mente, dalla cultura. Alla fase iniziale di ordine analogico, in cui l’artista utilizza il negativo a colori, segue l’ingrandimento, quindi la scelta di stampa su carta in bianco e nero, e, anche a distanza di tempo, l’intervento strutturale, in rilievo, di una tessitura di fili colorati, realizzata con la macchina da cucire. Una cornice neutra, infine, riveste la funzione di una finestra aperta sull’immaginario dell’autore e dello spettatore. Identificandosi tramite un codice, l’opera si depriva di qualsiasi titolo narrativo e di ogni riferimento all’uomo e alla debordiana società dello spettacolo. L’impuntura scritturale di fili colorati sul dispiegarsi di un paesaggio in bianco e nero ricrea un seducente labirinto di segni in cui un luogo di montagna può assimilarsi, paradossalmente, ad un deserto, in cui un osservatore è indotto a riconoscere sentieri mai visti. Si percepisce nel lavoro di questa artista, accanto ad una pulsione costruttivo/decostruttiva, l’esperienza di una perdita emorragica di reale a vantaggio dell’acquisizione di una visione seconda, di un doppio simulacrale.
Iris Hutegger, Benäht Iris Hutegger, Benäht
Nell’opera dell’artista tedesca Annegret Soltau (nata nel 1946 a Lüneburg, vive a Darmstadt, Germania) l’arte femminista degli anni Settanta/Ottanta trova un ineludibile referente. Significativo è, nell’articolato percorso del suo lavoro, il ciclo di fotografie cucite, selezionato per la mostra e intitolato Selbst/Io, appartenente giusto agli anni 1975-1976. Artista attiva sull’area di segno, grafica, performance, fotografia, cucitura con il filo (trascrizione tridimensionale del segno grafico, bidimensionale, degli inizi), collage, videoinstallazione, videoproiezione, ricorre al suo corpo ed alla sua immagine, mobile o immobile, come strumento di espressione, rappresentazione, provocazione. Negli anni, il suo volto si trasforma, metaforicamente, in lettere, numeri, dati, documenti di carta (identità, passaporto, conto in banca, bancomat, fattura del dentista). Pratica sovente l’ibridazione del corpo umano con corpi altri, attingendo anche alla fisiognomica del suo albero genealogico, restituito in una visione caleidoscopica. Nei suoi video il corpo viene ripreso come un paesaggio da cui scaturisce la vita, in cui si riafferma l’origine, la familiarità, il desiderio di distanza e di autonomia, ma anche la differenza, l’alterità. In Selbs l’artista, dopo aver avvolto, come in un bozzolo, il suo viso con il filo teso di seta nera, ne realizza una documentazione fotografica che, in una fase successiva, viene impunturata seguendo un reticolo di segno tendenzialmente geometrico. Ne scaturisce un autoritratto autolesivo, un’effige impedita, inibita, costretta al silenzio. Annegret Soltau scrive sulla pagina bianca del suo volto la sua storia di donna, una storia di conflitti, di pulsioni reattive all’ambiente familiare, alla posizione marginale della donna nel contesto sociale, alle pressioni e discriminazioni di genere. Quel filo, che preme sulla pelle sensibile del suo viso, mentre da una parte ne sfigura la forma dall’altra ne esalta la bellezza.
Una pubblicazione documenta la mostra con fotografie e testi critici.
Annagret Soltau, A visual journey Annagret Soltau, Selbst
Una nuova frontiera della fotografia
di Nicola Davide Angerame
Difficile pensare qualcosa di più controverso di una fotografia cucita. L'ago deve attraversare la pelle dura della carta fotografica, andando a bucare un'immagine reale già di per sé autosufficiente. Tre artiste, di tre generazioni diverse e successive, approdano a questa tecnica che è un saper fare prima ancora che un voler fare. Occorre inventare una tecnica che non è esistita prima e assemblare due materie distanti che rappresentano mondi indipendenti.
La fotografia è presente nell'arte contemporanea da pochi decenni, per quanto la fotografia d'autore sia nata con l'invenzione del mezzo stesso.
Anche il cucito è presente nell'arte contemporanea da circa tre decenni soltanto: è stato utilizzato in modalità che spesso puntano l'attenzione sulla valenza emotiva, sulla questione di genere e sulla temporalità.
La mostra qui proposta accoglie invece il cucito sotto una nuova luce, che è quella dell'intervento esterno atto a ri-disegnare immagini del reale che non bastano più a cogliere un rapporto con le cose. Il cucito, nel lavoro delle artiste qui proposte, non appare come una tecnica autonoma di creazione artistica ma funziona piuttosto come un grimaldello utile ad aprire nuove dimensioni visive, traghettando l'immagine fotografica di una realtà esistente (di un volto come di un paesaggio) verso una dimensione più intima e sensuale.
La tridimensionalità, il colore, la tattilità dei fili di tessuto utilizzati conducono l'occhio in direzione quasi contraria a dove porterebbe la fotografia soltanto; mentre questa è per lo più destinata a restare una “documentazione” del reale (non si può fotografare qualcosa che non esiste) il cucito gode di un'autonomia diversa, di carattere più decorativo ma anche altamente simbolico. Cucire è un atto ancestrale, una necessità antropologica senza tempo: si tratta di tenere insieme qualcosa che tende a sfuggire. Le opere qui presentate lo utilizzano più spesso come un elemento di arricchimento semantico, per delle immagini che sono comunque scattate dalle stesse artiste. Il loro occhio fotografico sembra accusare una "mancanza" nel mezzo meccanico a cui il cucito pone un rimedio.
Se alla fotografia può sfuggire il senso del reale (in una civiltà dell'immagine coma la nostra ormai saturata), il cucito può, anche grazie alla sua ricchezza decorativa, giungere al punto di fusione tra senso e sentimento, tra immagine ed emozione. Questo riscatto della decorazione, intesa in senso più ampio e nobile come “abbellimento non gratuito”, dona una nuova freschezza ai temi visivi che le artiste trattano a partire dal loro vissuto personale. La loro sensibilità non si accontenta più della fotografia come mezzo narrativo ed espressivo. Il cucito diventa la chiave per indagare nuovi orizzonti, che arricchiscono le tecniche di creazione della visione contemporanea, evitando di costruire un'avanguardia fondata su una sperimentazione radicale. La loro pacata convinzione è quella di poter offrire alla fotografia, e alla sua storia, una via inedita di riflessione sul proprio “corpo” e sul proprio senso. Arricchendola di contenuti piacevoli, offrendole una “grazia” insospettata.