Feliscatus – Dedicato a Magritte
L’oggetto dipinto ha la forma riconoscibile di una pipa ma si capisce che essendo di tela non è da utilizzare per fumare, se tentassimo di avvicinare ad essa il fuoco brucerebbe e sparirebbe; alla pipa di tela dipinta non chiediamo perciò questo requisito, di svolgere cioè la sua funzione di pipa ma di rimanere ancorata alla pura esistenza estetica.
Comunicato stampa
Parafrasando il vegliardo e all’occorrenza mansueto, fors’anche infine saggio Shakespeare della Tempesta, e volgendo ciò che al termine della mitologica rappresentazione tutta intrisa di magia, ad un soffio dal malinconico gorgoglio di un sipario vellutato e pesante come un’onda dal lento moto che tutto copre, fa dire a Prospero, questa pittura è fatta della stessa sostanza di cui sono fatte le tele, muove quindi dal sogno per arrivare alla concreta realtà, va dall’impalpabile alla fisicità della materia, per tornare, chiudendo il cerchio, all’evanescenza del sogno qualora il senso e il futuro dell’opera lo richiedessero.
Un sipario che, simile al magico libro dalle infinite pagine che serba in sé la totalità dei linguaggi e dei grugniti che si sono succeduti evolvendosi nel tempo, di tutte le parole che ha sentito e contiene ne rende visibili solo due, che si scontrano e sovrappongono per poi sparire alla vista socchiudendo gli occhi e ripiegando il voluminoso tomo nelle uniche due pagine-tende non incollate tra di loro.
Una parola per pagina: verità, menzogna.
Più che conosciuta la frase “Ceci n’est pas une pipe” e la perentorietà delle parole che la compongono. Il dipinto di Magritte, a cui la frase si riferisce, raffigura una pipa, ma non la si può prendere e usare per fumare perciò non è una pipa. Nel momento in cui io, Feliscatus, dipingo una pipa che ha la struttura in apparenza ed è fatta nella sostanza di tela, guizza un interrogativo che vira subito in certezza. L’oggetto dipinto ha la forma riconoscibile di una pipa ma si capisce che essendo di tela non è da utilizzare per fumare, se tentassimo di avvicinare ad essa il fuoco brucerebbe e sparirebbe; alla pipa di tela dipinta non chiediamo perciò questo requisito, di svolgere cioè la sua funzione di pipa ma di rimanere ancorata alla pura esistenza estetica. Assodato ciò, andando avanti nella lettura del quadro si può vedere che le parole scritte sotto la pipa dicono “Questa è una tela”. Qui sorge un altro tipo di ambiguità dai contorni assai sottili: se chi legge queste parole pensa che siano rivolte alla pipa può dire che quella è una tela dipinta e non una tela e potrebbe aver ragione. Ma io potrei anche affermare che quelle parole indicano la tela (vera) su cui le parole sono scritte (anche quella che sta sotto la pipa dipinta) e allora non ci sarebbero più appigli per alcuna ambiguità: il supporto del dipinto è una tela.
Nelle opere di Magritte dove il cambio di materia provoca straniamento e pure stupore, per certi versi inquietudine, interrogativi a non finire, un agrodolce languore e soprattutto godimento estetico, ad esempio dove tutto appare pietrificato, nei miei dipinti, che ad esse fanno capo, tutto arriva al corpo e all’osso, essendo telato, alla struttura chimica e fisica di quella pittura divenuta speculare a se stessa, forse non più impregnata di animalesca dipendenza da chi guarda, dunque proveniente da un tempo remoto e inaccessibile e da una luce tessuta che appare di natura propria e sufficiente alla sua esistenza.
Dedico questa mostra e il presente ciclo di dipinti (che è una inevitabile espansione dei quadri su Parigi) a Magritte e alla casa bohémien di via Cuniolo, in una parete della quale campeggiava, solo e incontrastato, un cento per settanta dell’Impero delle luci.
Una dedica particolare alla mia gatta Riù che il 21 di gennaio si è lasciata accarezzare per l’ultima volta. Da diciotto anni a casa mia viveva, si muoveva, miagolava, seguiva con interesse il mio lavoro.
F.C.