L’Illusione della luce
Antoni Muntadas Dialogo, 1980 Courtesy of the Artist and Kent Fine Art, New York. La mostra “L’illusione della luce” si propone di esplorare i valori fisici, estetici, simbolici, filosofici, politici legati a una delle realtà essenziali dell’esperienza umana, la luce, che sin dal Rinascimento (almeno) costituisce anche una dimensione fondamentale dell’arte.
Comunicato stampa
“L’illusione della Luce” a Palazzo Grassi
La mostra L’illusione della luce si propone di esplorare i valori fisici, estetici, simbolici, filosofici, politici legati a una delle realtà essenziali dell’esperienza umana, la luce, che sin dal Rinascimento (almeno) costituisce anche una dimensione fondamentale dell’arte.
Luce come chiarore, capace di trasformare l’invisibile in visibile. Luce abbagliante che, nel momento della sua massima intensità, annulla il senso della vista. Luce rivelatrice che ci conduce oltre ciò che vediamo… Articolata tra questi estremi, l’esposizione mette in scena, attraverso le opere di diciotto artisti dagli anni Sessanta a oggi, la profonda ambivalenza della luce, la sua straordinaria ricchezza di significati e di valori. Il visitatore è invitato a compiere un percorso di scoperta, addentrandosi nella moltitudine di sinonimi del verbo “illuminare”: accendere, analizzare, animare, brillare, chiarire, decifrare, demistificare, svelare, educare, delucidare, infiammare, arricchire, spiegare, istruire, informare, fiammeggiare, guidare, rischiarare, irradiare, mostrare, risplendere, scintillare, allietare, destare…
L’illusione della luce si apre con un’opera realizzata dall’artista californiano Douglas Wheeler per l’atrio di Palazzo Grassi, che ne viene interamente occupato. La luce qui si fa materia, ridefinendo lo spazio e il tempo, annullando i riferimenti percettivi del visitatore che viene condotto tra miraggio e realtà, natura e artificio, pieno e vuoto, istante e durata. Con un approccio più minimale, più distaccato, anche Robert Irwin trasforma lo spazio mediante la luce, utilizzando tubi di neon, materiali industriali lasciati a vista. Nel lavoro di Dan Flavin il rapporto con l’architettura rimanda alla storia delle avanguardie, nello specifico alla figura eminente del costruttivista russo Vladimir Tatlin. Utilizzando materiali poveri e fragili, l’installazione di Vidya Gastaldon rappresenta un contrappunto delicato e gioioso a questi esperimenti di trasformazione dello spazio.
Julio Le Parc, dagli anni sessanta uno dei principali protagonisti della Op Art, gioca sulle potenzialità ipnotiche e cinetiche della luce. Gli effetti luminosi della marquee di Parreno sovvertono vertiginosamente il sistema di segni su cui si fonda il mondo dello spettacolo, evocandone al tempo stesso l’immediatezza, la vacuità e l’irresistibile potere di attrazione. Anche Antoni Muntadas e Robert Whitman affrontano il fascino potente della luce, ma si concentrano sulla sua forma più semplice e modesta, la lampadina elettrica, e trasfigurano un oggetto banale materializzandone la dimensione onirica.
Segnati da ricerche molto diverse, fondate su media e registri radicalmente opposti, le opere di Sturtevant e Bertrand Lavier, che instaurano qui un dialogo, sono accomunate da un medesimo riferimento storico-artistico all’artista americano Frank Stella ed esplorano la dialettica nero/colore e oscurità/luce. Claire Tabouret, la più giovane tra gli artisti in mostra, si riallaccia invece a Paolo Uccello e al Rinascimento, proponendosi di evocare in un unico dipinto una pluralità di luci, dal giorno alla notte.
I dipinti neri di Troy Brauntuch sondano il cuore delle tenebre, i limiti stessi del visibile, per evocare il desiderio di vedere ogni cosa, l’ossessione visiva che permea la nostra società. Al contrario, General Idea rappresenta il bianco abbagliante per dare forma alla minaccia incombente dell’AIDS. Anche le opere di Marcel Broodthaers e di Gilbert and George parlano delle nostre paure primarie – anzitutto la paura della morte –, ma anche delle strategie di resistenza di fronte a esse. Infine l’opera di Eija-Liisa Ahtila ci invita a un’indagine introspettiva. Tra sogno e realtà, il suo lavoro evoca la necessità di affrontare una ricerca interiore, di gettare una nuova luce sulla propria storia.
Ancora luci e ombre, puntate però su una storia collettiva: quella dell’Africa di oggi, evocata da David Claerbout; quella della primavera araba, rappresentata da Latifa Echakhch; o quella del colonialismo, con cui ci invita a confrontarci la grande installazione di Danh Vo, che coinvolge e sconvolge la grande sala centrale del piano nobile.
La mostra non ambisce naturalmente a dare una risposta esaustiva alla moltitudine di interrogativi sollevati dagli artisti contemporanei sui significati e sui ruoli molteplici della luce. Invita piuttosto il visitatore a inventare, in tutta libertà, un proprio percorso personale tra le polarità opposte del bianco e nero, del giorno e della notte, della realtà e dell’illusione, alla luce della propria intelligenza e della propria sensibilità.