Idea di Frattura
L’idea di una frattura, appunto, di una violenza spesso invisibile, ma che soggiace alla creazione di architetture utopiche, spettacolari e affascinanti, costituisce, in un certo senso, il nodo centrale della mostra.
Comunicato stampa
Francesca Minini è lieta di annunciare Idea di Frattura, il secondo appuntamento con OPINIONE LATINA, nuova tappa di un percorso rivolto all’arte contemporanea latino americana.
L’idea di una frattura, appunto, di una violenza spesso invisibile, ma che soggiace alla creazione di architetture utopiche, spettacolari e affascinanti, costituisce, in un certo senso, il nodo centrale della mostra.
Evidente è la suggestione dell’architettura modernista (legata anche alla costruzione di Brasilia), che ritroviamo in lavori in cui la bellezza delle forme nasconde, più o meno velatamente, allusioni alla violenza della colonizzazione.
La mostra apre con la grande pittura murale di Laercio Redondo (parte della serie Lembranças de Brasília, 2012) che rende omaggio a Athos Bulcão (collaboratore di Oscar Niemeyer in alcuni dei progetti più suggestivi dell’edificazione di Brasilia) e al suo metodo aperto e permeabile alle circostanze incontrollabili della vita, e in questo senso sottilmente anti-modernista: Bulcão invitava gli operari ad esprimere la propria creatività durante il lavori, lasciandoli liberi di giustapporre i disegni della mattonelle come meglio credevano. Le tende di Felipe Mujica definiscono alcuni parametri formalmente inscrivibili anch’essi nella tradizione modernista, lasciando un certo margine di libertà ai collaboratori che le realizzano, per esempio permettendo, in alcuni casi, che siano loro a scegliere il colore delle stoffe. Nei collages e nelle sculture di Elena Damiani, la purezza delle forme appare contaminata, rinnegata quasi dalla giustapposizione di architetture e spazi completamente distinti e di materiali profondamente differenti come il vetro e il marmo. Attraverso le immagini, inoltre, Damiani istituisce, anche se in modo frammentato e non lineare, una narrativa, un universo fantastico e complesso in cui sentiamo che sarebbe possibile vivere, e in cui, forse, qualcuno di fatto vive.
Malgrado non abbia una colonna sonora, Foro (Armando Andrade Tudela, 2013) è intrinsecamente musicale: le mani dell’artista e degli studenti di architettura che lo aiutano a costruire un modello in gesso della casa senza fine elaborata da Friedrich Kiesler disegnano un concerto di forme e gesti estremamente melodioso. Nelle sculture della serie Lores (2014), Andrade Tudela utilizza lo stesso materiale e un principio in certo modo speculare, rendendo evidente e cercando, nella stessa realizzazione delle opere, la rottura e l’instabilità, metafora della storia che raccontano.
La repressione spietata di uno sciopero di operai durante la costruzione di Brasília, e soprattutto la maniera come questa repressione è negata da Oscar Niemeyer e Lucio Costa nelle interviste appropriate da Clara Ianni in Free Form / Forma Livre, Parte I e II (2013), parlano esattamente della “frattura” mal rinsaldata su cui è costruita la capitale, e metonimicamente il paese e il continente stesso. Una frattura atavica, che può essere fatta risalire al trauma fondante della colonizzazione, e alla maniera come, nei secoli seguenti, lo scacchiere sociopolitico sia rimasto sostanzialmente invariato. La guerra cui allude Ianni in War II (2011-12) è solo apparentemente quella di un gioco da tavola: ciò che rende improvvisamente spaventosi quegli obiettivi totalitari e spietati, e ciononostante familiari, non è il loro inserimento in un contesto differente, ma il modo in cui, in questo nuovo contesto, riecheggiano un passato tragico e un presente inosservato.
Le note a piè di pagina di Alessandro Cesarco (Footnotes, 2014) evocano, in un ambito apparentemente appena intellettuale, realtà parallele, la capacità dell’arte e del linguaggio di trasformare la realtà, svelandone il lato fantastico. In questo senso, le note di Cesarco costituiscono la chiave indispensabile per capire che tutto può essere (ed è) detto e negato, che il linguaggio è un’architettura della parola, che, costruendo diversi livelli interpretativi, da un lato nasconde, quasi proteggendolo, lo stato delle cose, e dall’altro lo lascia filtrare. Analogamente, l’alfabeto grafico inventato da Mateo López per comporre le sue poesie-sculture, che alludono alla grande tradizione della poesia concreta in America Latina, non è immediatamente comprensibile. La litografia fornisce la chiave per la lettura del lavoro: è una specie di dizionario che dovrebbe permettere di capire, ma è evidente che non dice tutto, perché è impossibile. Alcune cose, a volerle spiegare, si dissolvono nell’aria. Ed è in quest’ambito del non dicibile, che Runo Lagomarsino installa la sua carta da parati, trasformando lo spazio espositivo in una quinta teatrale adornata da un segno apparentemente appena decorativo, ma che parla, nuovamente, di violenza e colonizzazione: il simbolo utilizzato come firma dal conquistador (analfabeta) Francisco Pizarro. Se, come suggerisce il titolo di un’altra opera di Lagomarsino, l’impresa di Colombo può essere sembrata, all’inizio, una specie di scherzo (We All Laughed at Christopher Columbus, 2003), adesso nessuno si permette più di ridere, la firma sbilenca di Pizarro chiude il cerchio aperto dalle forme cordiali di Athos Bulcão, e ci ricorda che resta, indelebile e vigile, fino ad oggi, al di sotto di ogni nuovo tentativo di istaurare un processo autenticamente democratico in America Latina.