Giuliano Spasmo Addari

Informazioni Evento

Luogo
SPAZIO AZIMUT
P.Emanuele Filiberto 11 , Torino, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al
Vernissage
15/07/2014

ore 19

Artisti
Giuliano (Spasmo) Addari
Curatori
Francesco Sena
Generi
arte contemporanea, personale

Mostra personale

Comunicato stampa

CONTRAZIONI MUSCOLARI INVOLONTARIE
«Wittgenstein sosteneva che i problemi e le difficoltà più gravi e profonde potessero essere discusse solo sotto forma di battute di spirito. Nella letteratura americana c’è una tradizione, detta umorismo nero, che è un tipo di umorismo molto sardonico, triste. Ci sono forme di umorismo che servono per fuggire dalla sofferenza, ci sono forme di umorismo che servono per trasfigurare la sofferenza […]. Capisci quello che voglio dire?» Così David Foster Wallace cercava di spiegare, a un’intervistatrice che l’occhio della telecamera lasciava prudentemente fuori dall’inquadratura, quale fosse il ruolo dell’umorismo nel suo romanzo più noto.2 Il volto dell’intervistatrice appunto non lo vediamo, in questa intervista rilasciata nel 2003 per una tv tedesca, ma possiamo ragionevolmente immaginarlo osservando quello dell’intervistato e ascoltando il modo in cui articola la sua risposta: le pause, la scansione lenta delle parole, le sopracciglia che s’inarcano di continuo, come in cerca di un appiglio che il contatto visivo non è sufficiente a garantire, e poi la chiusura, con una mezza smorfia e una domanda (per niente retorica: l’intervistato ha davvero bisogno di sapere se l’intervistatrice lo segue o no). Ciò che prosodia e gestualità esprimono senza che Wallace debba nominarlo non è fastidio: è fatica. L’intervista infatti va avanti e le difficoltà aumentano.
In fase di montaggio è stata tagliuzzata in una decina di clip, ma ne esiste anche una versione intera, senza tagli.
I frammenti sono ritagliati e ripuliti come si conviene ai dibattiti politici, dove le sbavature ricadono nei fuori onda, mentre la versione intera sembra più una tortura che un dialogo, almeno per l’intervistato. Il quale sa che le parole che si dicono, nel percorso che dalle terminazioni nervose proprie le conduce a quelle altrui, vengono sottoposte a troppe storture per poter trattenere ciò che in origine intendevano esprimere, o comunque, arrivate a destinazione, lo esprimono solo in parte, e non nella forma migliore. L’intervistato lo sa bene, e non a caso affida alla pagina il compito di sistemare il proprio pensiero in parole che gli assomiglino. La fortuna di aver trovato questo “luogo sicuro”, peraltro, non significa che il processo per attuarlo sia semplice, e che non richieda comunque un enorme sforzo, né che le pagine non richiedano, a loro volta, un’attenta dedizione da parte di chi le leggerà. L’esito (scritto) è in ogni caso quanto di più vicino lui abbia a disposizione rispetto all’intento. E l’accanimento dell’intervistatrice nel tentative di trovare altrove, nel commento a posteriori di un dialogo imposto, parole ulteriori, più necessarie e significative, oltre che faticoso è del tutto inutile.
Credo che Wallace, in quella lunga intervista che si svolge con la lentezza di un’agonia, stesse pensando esattamente ciò che Giuliano Addari, in arte Spasmo, ha scritto in stampatello maiuscolo nel quadernone a quadretti in cui disegnava: «Beati coloro che leggendo queste pagine rimarranno in silenzio». I limiti delle parafrasi, se valgono per il linguaggio letterario, valgono a maggior ragione per il linguaggio visivo, anche perché è proprio nell’ambito delle arti visive che si consuma l’inflazione esplicativa più accanita, una sorta di furia argomentativa che, se non serve a mascherare povertà di contenuti o mistificazioni, rischia comunque di non rendere un buon servizio alla bontà degli intenti, facendo della scrittura critica uno strumento di comprensione accordato male, quindi inservibile.
Con la consapevolezza che rompere il silenzio è un peccato grave e spesso inutile, dei disegni di Giuliano si può dire che ricordano lo spirito libero, anti-eroico, disturbato e disturbante delle riviste di fumetti più sperimentali dei tardi anni settanta, come «Cannibale» e «Frigidaire». Il carattere e il tono delle tavole sembrano sintonizzati sulle stesse frequenze dell’immaginario grottesco di Andrea Pazienza, con picchi di violenza degni del più diabolico Zanardi.
Si può dire che a questa parentela putativa, rispetto a Spasmo di vecchia generazione, si sovrappone la grafica da cartone animato americano che dagli anni novanta in poi è parte del mainstream catodico entrato nelle case di tutti. A ipotetiche versioni incensurate di Beavis&Butt-head e South Park, Spasmo avrebbe potuto prestare più di un personaggio e svariati testi. Ma il filo conduttore grafico-tematico si spezza sul colore, che non c’entra niente né con il vecchio fumetto underground né con i suoi derivati televisivi. A parte alcune fluorescenze e contrapposizioni di complementari (soprattutto rosso e verde), il colore è decisamente inoffensivo rispetto a linee di contorno e contenuti. Un po’ come si vede nei lavori ad acquerello dell’artista canadese Marcel Dzama, dove la tavolozza dai toni leggeri e sfumati è in netto contrasto con gli scenari, spesso sanguinari, a cui pure dà sostanza. Nel caso di Spasmo sono i pastelli a sostenere l’unità cromatica – pastelli che si sovrappongono alla trama disegnata con l’effetto di una carta velina, come avessero paura di far male al foglio: la linea di contorno lo morde, il colore lo accarezza, mentre la successione di tossici, demoni, vagine dentate, feti deformi galleggia in un’atmosfera fragile. Sembra che tutti i deliri grafici e verbali di Spasmo si consumino dentro una bolla di sapone. Ed è così che il racconto procede, perché è capace di prenderti per mano pur tirandoti per i capelli: di fronte al disegno inciampi e ci caschi dentro, e ridi anche se ti sei fatto male. Credo che Wallace, a Spasmo, non avrebbe avuto bisogno di spiegare che cos’è l’umorismo nero.
Tutto ciò che dei disegni di Spasmo si può dire, però, non credo troverebbe riscontro nei commenti che lui ne avrebbe dato. Disegnava in modo istintivo, senza scuole né modelli di stile. Si è espresso attraverso “l’arte”, virgolettando la parola (compreso l’articolo) come se questa fosse prerogativa delle scuole e dei modelli di cui appunto non teneva conto, e senza probabilmente mettere a fuoco che in assenza della libertà che per caso si è trovato tra le mani (confondendola con imperizia tecnica), il foglio non sarebbe diventato il riverbero più autentico e fedele di se stesso.
Il che, tra l’altro, è la sola funzione che il mezzo espressivo prescelto dovrebbe aiutarci a svolgere. I suoi commenti sul disegno sono pieni di attenuativi rispetto alle competenze di mestiere ma molto consapevoli del ruolo che il disegno aveva rispetto a tutto il resto: una specie di traduttore automatico del caos che le parole fanno tanta fatica a ordinare, metabolizzare ed esprimere, uno strumento artigianale, che è la mano e non l’intelletto ad attivare, e che in fondo funziona proprio perché scalza le pretese regolatrici della razionalità, e anche della tecnica. Il nome d’arte, del resto, è la più sintetica e appropriata definizione di ogni suo disegno: più che un prodotto elaborato dal pensiero e raffinato dallo stile, una contrazione muscolare involontaria.
Non siamo molto abituati né a fare né a guardare le cose per istinto, senza filtri, soprattutto tra le pareti di una galleria. Sembra sempre che l’occhio debba pensare più che osservare. E questa para-osservazione, questo sguardo non autosufficiente, finisce fatalmente per assomigliare a un’analisi di laboratorio (se non per la precisione, per la serietà “emotiva” a cui in genere si associa). Credo che i disegni di Spasmo non possano dire niente a questo tipo di sguardo. Se è vero che l’esito delle tante contrazioni muscolari involontarie trattiene buona parte del dolore che le contrazioni, di per sé, provocano, è vero anche che questo dolore, il disegno, lo rilascia, e poi ne ride. Non c’è bisogno né di critica né di psicoanalisi, ma di una risata. L’universo di Spasmo è apocalittico, ma è anche demenziale: questo è il suo umorismo nero, non una fuga dalla sofferenza ma la trasfigurazione della sofferenza, che lascia traccia sotto forma di mostri colorati a pastello.
Le risonanze dei disegni di Giuliano sono importanti perché colpiscono ciò che sta fuori dal foglio: la vita, con le sue strutturali e insanabili contraddizioni, la vita che è anche, sempre, potenzialmente, il suo contrario. Non è compito dell’efficienza cerebrale neurotipica, che può solo farsene un’idea sulla base di resoconti altrui, cogliere l’essenza del paradosso. Il contraddittorio che è all’origine di tutto non può che essere raccontato da chi lo attraversa fino in fondo, ammesso e non concesso che trovi il modo per tradurlo, a parole, segni grafici o colore. Certamente loro malgrado, ma sono i folli a vedere ciò che non esiste, e a rendere visibile ciò che non lo è, diceva Paul Klee, è l’arte.
Sara Boggio