Il Mito di Sisifo
scatolabianca propone un ciclo dedicato alla pittura attraverso una serie di mostre bi-personali i cui protagonisti rappresentano e si esprimono con un linguaggio classico permeato da un taglio contemporaneo fortemente concettuale, da una temperatura personale, uno stile ad alto tasso di poesia e di chirurgia, da una capacità allestitiva che entra nel codice stesso dell’opera e del progetto espositivo.
Comunicato stampa
scatolabianca propone un ciclo dedicato alla pittura attraverso una serie di mostre bi-personali i cui protagonisti rappresentano e si esprimono con un linguaggio classico permeato da un taglio contemporaneo fortemente concettuale, da una temperatura personale, uno stile ad alto tasso di poesia e di chirurgia, da una capacità allestitiva che entra nel codice stesso dell’opera e del progetto espositivo.
I temi proposti si riferiscono ad alcune fasi di criticità che nel Novecento hanno tenuto sotto scacco la società, la cultura e la coscienza antropologica della collettività: il tema dell’Assurdo affrontato da Albert Camus, il sovraccarico d’Immagini denunciato da Jean Baudrillard, il concetto di Paesaggio inteso come sguardo interiore, antropologico, psicologico, culturale, l’Antropologia delle Immagini teorizzata da Hans Belting.
Il Mito di Sisifo. Lorenzo Aceto - Paola Angelini
Pubblicato da Gallimard nel 1942, qualche mese dopo Lo straniero, il libro di Albert Camus (premio Nobel per la letteratura nel 1957, morto nel 1960 in un incidente automobilistico) è un testo che interloquisce direttamente con la filosofia esistenzialista, allora in auge.
«Qui si troverà soltanto la descrizione di un male dello spirito allo stato puro, senza che, per il momento, sia congiunto ad alcuna metafisica né ad alcuna fede». Queste note sono state premesse al testo, che comincia invece con queste fondamentali considerazioni: «vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto viene dopo».
Camus avvia dunque la più radicale riflessione sul senso della vita: «il vivere sotto un tal cielo soffocante, richiede che se ne esca o che vi si rimanga. Si tratta di sapere come se ne esca nel primo caso e perché si resti nel secondo» (p. 29). La mancanza di senso generata dall’incontro col mondo rende l’uomo “assurdo”. Egli si rende conto di essere tale quando affronta le grandi questioni esistenziali: «cominciare a pensare è cominciare a essere minati» (p. 8), «perché le dottrine, che mi spiegano tutto, mi indeboliscono nel medesimo tempo. Esse mi sgravano del peso della mia vita, ma con tutto ciò bisogna bene che io lo porti da solo» (p. 52).
Se la morte è un orizzonte ineliminabile e i valori su cui si basano le diverse scuole di pensiero (religiose e non) non sono in grado di giustificare alcuna scelta, all’“uomo assurdo” non resta che darsi alla ricerca di una vita piena. «Non vuol fare quello che non capisce. [...] Egli non sente che questo: la propria innocenza irreparabile. E questo gli permette tutto. Cosicché, ciò che egli richiede da se stesso è solamente vivere con ciò che sa, adattarsi a ciò che è, e non far intervenire nulla che non sia certo. Gli viene risposto che niente lo è: ma questa, almeno, è una certezza. [...] A questo punto il problema è invertito. In precedenza si trattava di sapere se la vita dovesse avere un senso per essere vissuta; appare qui, al contrario, che essa sarà tanto meglio vissuta in quanto non avrà alcun senso. Vivere un’esperienza, un destino, è accettarlo pienamente». (p. 50). Perché «per un uomo senza paraocchi, non vi è spettacolo più bello di quello dell’intelligenza alle prese con una realtà che la supera. Lo spettacolo dell’orgoglio umano è ineguagliabile» (p. 51).
Se dunque non esistono valori, occorre aumentare il numero di esperienze e cercare di avere una vita lunga: «Battere tutti i record significa, in primo luogo e unicamente, trovarsi di fronte al mondo il più spesso possibile [...] L’errore è quello di pensare che una tal quantità di esperienze dipenda dalle circostanze della nostra vita, mentre non dipende che da noi» (p. 57). Va quindi sottolineata la vitalità del messaggio dell’autore: «l’universo qui suggerito vive soltanto in opposizione a quella costante eccezione che è la morte» (p. 58). Ancor meglio, si potrebbe addirittura parlare di urgenza: «Dal punto di vista di Sirio, le opere di Goethe fra diecimila anni saranno polvere e il suo nome sarà dimenticato [...]
Di tutte le glorie la meno fallace è quella che si vive» (p. 74). E ancora: «non ignoriamo che tutte le Chiese sono contro di noi [...] Quello che esse apportano è una dottrina, alla quale bisogna sottoscrivere. Ma io non so che farmene delle idee e dell’eterno. Le verità, che sono alla mia portata, possono essere toccate dalla mia mano» (p. 84). Sisifo, secondo il mito, fu condannato dagli dèi a trasportare per l’eternità un pesante masso fino alla sommità di un colle, dove il masso sarebbe invariabilmente rotolato a valle, costringendo quindi Sisifo a ricominciare la fatica daccapo.
Per Omero, Sisifo era il più saggio dei mortali. Camus vede quell’uomo «ridiscendere con passo pesante, ma uguale, verso il tormento, del quale non conoscerà la fine [...] In ciascun istante, durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dèi, egli è superiore al proprio destino» (p. 119); «Tutta la silenziosa gioia di Sisifo sta in questo. Il destino gli appartiene, il macigno è cosa sua [...] Egli sa di essere il padrone dei propri giorni» (p. 120); < Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dèi e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile [...] Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo» (p. 121). Iniziato all’insegna del nichilismo, il libro si conclude con inno alla vita: «Bisogna immaginare Sisifo felice >.
(Albert Camus, Il Mito di Sisifo, Bompiani Editore, Milano, 2006)
©Martina Cavallarin