Il destino delle cose
Se un tempo, nella vita dell’uomo, gli oggetti avevano una presenza stabile e quasi mitica, se la loro produzione e il loro uso erano un tutt’uno con il loro significato, nell’età moderna ogni oggetto diventa riducibile ad un puro apparato funzionale.
Comunicato stampa
Se un tempo, nella vita dell’uomo, gli oggetti avevano una presenza stabile e quasi mitica, se la loro produzione e il loro uso erano un tutt’uno con il loro significato, nell’età moderna ogni oggetto diventa riducibile ad un puro apparato funzionale. L’avanzamento tecnologico lo spinge verso una totale banalizzazione, verso quella dimensione dell’ “usa e getta” che non lascia più traccia della nostra memoria e del nostro essere.
Ebbene, lo sguardo che l’arte rivolge verso le cose, proprio a partire dalla modernità, sembra avere come obiettivo principale quello di ridare alle cose stesse un senso, una storia, una individualità. E, in alcuni casi, addirittura una dimensione di magia e di mistero. Se si prende ad esempio la figura di Schwitters, che raccoglie brandelli di vita (biglietti del tram, fili metallici, spaghi, ecc.) accumulati secondo la legge del caso, si capisce come anche i rifiuti possano diventare frammenti carichi di memoria e di poesia. Con l’artista polacco Kantor e i suoi “Ombrelli” (o i suoi “Emballages”) l’oggetto si contrae, si distende, comunicando quasi un’idea di energia, di tensione, di movimento. E’ un po’ come se si cercasse di richiamarlo in vita, di scuoterlo dal torpore nel quale è immerso, causa l’uso o il consumo. Gli esponenti del “Nouveau Réalisme” (Arman, César, Spoerri, ecc.) propongono invece un inedito accostamento al reale, invitandoci a percorrerlo liberamente, e a insinuarci nelle sue pieghe, nei suoi risvolti. Resti e residui diventano spazi aperti, in cui è messa in scena la rovina, ma in cui la stessa rovina diventa materiale vitale e creativo.
Tutt’altro approccio alle cose presentano le nuove generazioni. Oggi si va sempre più verso una visibilità totale e illusoria e ogni elemento materiale risponde solo a un bisogno di immaginazione, di fantasia. Come recuperare la perdita materiale, il “sapore delle cose concrete”? Forse non resta che la memoria. Anche perchè, come ha scritto W. Benjamin: “Per la storia nulla di ciò che è avvenuto dev’essere mai dato per disperso”. Le cose, in questo modo, “diventano inesauribili ricettacoli di commemorazione”, materie che sopravvivono, passato che continua a lavorare appassionatamente anche nel presente. E’ così per Christian Fogarolli che, nella sua installazione Blackout ci introduce in una sorta di “museo delle miserie”, messo insieme in una vita intera. Le cose (una cassapanca scrostata, un armadio cadente, vecchie foto) finiscono per diventare inseparabili, indinstinguibili da chi le ha raccolte. Ed è così anche per quel panneggio fatto da mille corde che scendono dal soffitto di Andrea Bianconi: panneggio di chincaglierie, dove ogni identità si perde per far posto a infinite combinazioni, ad una specie di “caos del cosmo”. Come è così per il video di Alessia Cargnelli che documenta le insignificanti tracce di un luogo dimenticato di Venezia. Una sequenza di immagini virate al porpora, in cui si alternano i contorni tremanti di oggetti, architetture, fasci di luce radente. Una paradossale “archeologia del presente”. Più mentale è il discorso di Flavio Favelli: egli lavora sul senso del vissuto, del quotidiano, del privato. In Lettiga, assembla pezzi di mobilio, che sembrano funzionali, ma che non lo sono, che sembrano riconoscibili, ma che sfuggono a ogni identificazione. La lettiga infatti perde il suo senso antico e si trasforma in un oggetto che pare sul punto di sfasciarsi. Pure l’installazione di Enrica Borghi mette in scena una trasformazione lampante, come un sogno ad occhi aperti. Si tratta di bottiglie di plastica che, tagliate e deformate dal calore, diventano altro: qui spostano la loro banalità verso quello che potrebbe essere la sublimità di un cielo stellato. Restando se stesse danno luogo a un mostrarsi nuovo, inatteso. Daniele Girardi, infine, propone un intervento che può ricordare una ferita nel muro, da cui fuoriesce una cascata di taccuini bruciati, consunti. Egli intende alludere sia alla catastrofe che all’energia insita nella catastrofe stessa, indicare un mondo in disfacimento, ma anche un nuovo mondo possibile, pensabile, realizzabile.
Nelle cose fuori moda, nei fondi di magazzino, nella miniera del dimenticato, questi artisti rincorrono con accanimento quel “lascito del passato” tuttora pregno di indizi che possono offrire anticipazioni di una storia posta sotto il segno del “diverso”, tracce dei fili che già in passato hanno rimandato all’esigenza di un futuro liberato. E’ per questo che in mostra trova spazio un omaggio a Michelangelo Antonioni con la proiezione dell’ultima sequenza di Zabrinskie Point, con le immagini mitiche della villa che esplode o il video del duo svizzero Fischli & Weiss (Der Lauf der Dinge), altra storia di infinita catastrofe, anche se incredibilmente esilarante. E’ per poter mostrare che i ricordi (delle cose) fluiscono nel tempo, ma non si logorano né si esauriscono. Semplicemente con i loro resti fondano altre realtà e altre visioni.