Safet Zec – La pittura come miniera
Il percorso espositivo riunisce 64 opere, che coinvolgono tutti i soggetti, i modi, i supporti e gli strumenti della pittura, dell’incisione e del disegno, e che raccontano la personale “ricerca” attraverso l’arte di Safet Zec, dagli anni settanta fino agli ultimi lavori. Quattro i temi indagati e raccontati in altrettante sezioni della mostra: Cose, Persone, Alberi, Luoghi.
Comunicato stampa
Sabato 15 novembre alle ore 18 inaugura, negli spazi Bomben di Treviso, la mostra La pittura come miniera, personale dell’artista Safet Zec (Rogatica, Bosnia-Erzegovina, 1943), una delle figure più significative della ricerca artistica del nostro tempo.
Curata da Domenico Luciani, l’esposizione è organizzata dalla Fondazione Benetton Studi Ricerche nel quadro della campagna culturale per i villaggi di Osmače e Brežani, Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino 2014, ed è dedicata ad Alexander Langer.
La mostra sarà aperta fino a domenica 15 febbraio 2015.
Il percorso espositivo riunisce 64 opere, che coinvolgono tutti i soggetti, i modi, i supporti e gli strumenti della pittura, dell’incisione e del disegno, e che raccontano la personale “ricerca” attraverso l’arte di Safet Zec, dagli anni settanta fino agli ultimi lavori. Quattro i temi indagati e raccontati in altrettante sezioni della mostra: Cose, Persone, Alberi, Luoghi.
Il lavoro di Safet Zec, continuo a partire dalle prime opere a Sarajevo alla fine degli anni cinquanta, è un lavoro confrontabile con quello del minatore. L’artista scende negli strati profondi per cavare la materia dalla quale trae origine la vita delle forme. Torna su, la porta con sé, la fa arrivare in superficie e la mette in luce. Ci aiuta così a domandarci di che cosa sono fatti i pezzi del mondo che sta intorno a noi; e di che cosa siamo fatti noi stessi. La sua biografia, segnata dai contesti geografici, dagli scarti storici, dalle radicali modificazioni culturali del secondo Novecento, ha trovato nel lavoro artistico il suo mestiere di vivere e nella solitudine operosa la treccia continua che rende indistinguibili, avvolte nella stessa vicenda dolente e riservata, le ragioni della ricerca artistica e quelle della tensione civile. Nonostante la sua opera disponga ormai di una letteratura critica, nella quale spiccano i riconoscimenti di Jorge Semprún (Hacer tiempo, 2006) e abbia alle spalle una vasta gamma di esposizioni, in ogni parte del mondo, la sua figura è ancora lontana dall’essere adeguatamente conosciuta e riconosciuta.
Le ragioni di un’iniziativa che contribuisca a far circolare più largamente il lavoro di Safet Zec sono collocate esattamente all’incrocio dei compiti peculiari di un centro studi, tra diffusione delle conoscenze e approfondimento delle ricerche. Sul terreno culturale, pur non dimenticando che le prime mostre italiane sono state promosse da queste stesse parti (Udine 1993, Conegliano 1994), l’iniziativa trevigiana appare “necessaria”. Sul terreno della ricerca, la varietà e l’ampiezza cronologica delle opere esposte offrono una preziosa occasione per cercare di capire un po’ meglio quale contributo possa venire dai mezzi propri della pittura allo studio dei luoghi, di tutti i luoghi, nella infinita varietà e nella metamorfosi inarrestabile dei loro tratti fisiognomici e caratteri individuali.
Nello scavo implacabile che questo maestro compie con i suoi attrezzi di pittore, incisore e disegnatore addosso e dentro a tutti i soggetti a portata di sguardo, da un cucchiaino a una montagna, da un laccio di scarpe alla chioma di un grande albero, sempre, al di là delle varie misure e posture del soggetto, il risultato ci rivela un nuovo pezzetto della relazione forma-vita.
E ogni volta l’arte, come la musica, ci sorprende, facendoci arrivare “là dove non eravamo stati mai”.
Le cose, le persone, gli alberi, i luoghi sono i quattro pozzi principali della miniera di Safet Zec; quattro eterni rovelli della ricerca artistica, quelli che hanno reso grandi Michelangelo, Velasquez, Vermeer, Bacon e gli altri, con Rembrandt in cima, le figure alle quali egli si rivolge con un’ammirazione così profonda da contenere, con il pathos della conoscenza, anche il furto con l’occhio dell’apprendista, e perfino il gusto della sfida.
Sono quattro centri che dopo le opere introduttive (in mostra, nn. 1-17), occupano altrettante aree espositive sulle quali è costruita la sequenza.
Cose (in mostra, nn. 18-28). Le cose della vita di ogni giorno. Il mondo vicino prende senso. Riappaiono in una nuova luce indaginosa e sorprendente gli oggetti e gli attrezzi del tempo e dello spazio ordinario. Il mestiere del pittore ripensa e ci aiuta a ripensare il valore di ogni cosa che si trovi intorno a noi.
Persone (in mostra, nn. 29-37). Le infinite posture, espressioni, misure del corpo umano, le mani innanzitutto, gli arti, i visi, e i dettagli più diversi, unghie o lacrime che siano, trovano inedite composizioni e significati.
Alberi (in mostra, nn. 38-45). La scurità e le trasparenze alle quali può arrivare la pittura, e ancor più l’incisione, affrontano il mondo vegetale, il grande albero con le sue chiome, le immancabili presenze di fiori e di frutti nelle tavole della casa, nella finestra che guarda il giardino.
Luoghi (in mostra, nn. 46-63). La paziente accumulazione di strati, dai primi fondi neutri alle carte incollate fino alle successive incursioni dei pennelli, della punta, del lapis, la lenta elaborazione e giustapposizione di infiniti segni, insomma le discese e le risalite del minatore nei pozzi e nelle gallerie della miniera, appaiono con particolare leggibilità quando sono alle prese con la natura, la memoria, la forma-vita dei luoghi.
L’area conclusiva espone opere che si misurano con case, borghi, paesi sorpresi nelle loro diverse “tonalità spirituali”, nelle diverse stagioni, nelle diverse luci del giorno, nei diversi stati d’animo di chi dialoga con loro (Ritratto della madre alla finestra, in mostra, n. 64). Appare così ancor più viva la continuità della mostra con le attenzioni culturali, scientifiche e civili rivolte a Osmače e Brežani, villaggi bosniaci del “ritorno alla terra”, sull’altopiano sopra Srebrenica, dove ci ha portato quest’anno il Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino. E appaiono ancor meglio leggibili le ragioni e i sentimenti, con i quali Safet Zec e tutti noi dedichiamo questa iniziativa alla figura di Alexander Langer.
[testo di Domenico Luciani, tratto dalla pubblicazione connessa alla mostra]