Paolo Gobbi – Tracciati
La ricerca artistica di Paolo Gobbi, puntuale e coerente nel corso di un trentennio, di recente ha reso più marcata la costante che nutre la sua poetica: la dialettica presenza/assenza.
Comunicato stampa
a cura di Paola Ballesi
Tracciati
La ricerca artistica di Paolo Gobbi, puntuale e coerente nel corso di un trentennio, di recente ha reso più marcata la costante che nutre la sua poetica: la dialettica presenza/assenza. L’artista ha infatti progressivamente scarnificato e azzerato la potenza espressiva e assoluta del colore, cui aveva affidato le opere delle precedenti stagioni dove la monocromia dell’impasto e la stesura compatta delle superfici rendevano palese l’evocazione dell’assenza, del vuoto, per aprire un varco alla presenza. Una presenza ora statica e ingombrante, ora discreta, talvolta addirittura impercettibile, ma comunque in grado di ingaggiare una contesa dialettica, il motivo a cui consegna l’architettonica del quadro. E’ così che prende corpo lo spazio della pittura, costruito centellinando istante per istante, giorno dopo giorno, raffinate e dotte pratiche che coniugano l’artificio composto del colore in tensione verso il vuoto con quello indomito del segno che segna una presenza. Cosicché la spazialità oggi emergente dai suoi lavori è profonda e intrigante, dove l’interno si confonde con l’esterno, lo psichico con il geometrico, uno spazio astratto ma ad alto gradiente di tattilità, per lo più abitato da elementi grafici gracili e volatili che intrecciano sottili tracciati vibranti di tensione emotiva. D’altra parte forte è sempre stato nell’artista settempedano il desiderio di attingere i segreti della pittura per penetrare nel cuore della figurazione creatrice di mondi che solo in essa vengono per la prima volta all’esistenza grazie alla forza espressiva del linguaggio visivo. Già ampiamente sdoganato da Konrad Fiedler che negli Schriften über Kunst (1876) gli riconosceva prerogative analoghe a quelle del linguaggio verbale poiché: “La creazione artistica indica una relazione tra l’uomo e il mondo analoga a quella che l’uomo determina nei rapporti del mondo quando costruisce concetti; anche l’opera d’arte può essere definita, in un certo senso, un’astrazione”. Di fatto, la condanna del cosiddetto ‘realismo ingenuo’ e l’individuazione da parte di Fiedler del fine dell’arte nella creazione di un mondo autonomo, anticipano in maniera sorprendente le posizioni espresse dai maggiori rappresentanti dell’arte del ‘900, quali Klee, Kandinsky, Matisse e tutti gli apologeti e seguaci del Der Blaue Reiter come delle avanguardie nostrane che hanno definitivamente rotto con il passato e la tradizione per rilanciare l’arte verso il futuro con palinsesti innovativi aperti ad una creatività onnivora e dilagante. Da queste coordinate di riferimento, che pur datate restano presupposti saldi e indispensabili per orientarsi nel poliedrico e sconfinato campo dell’arte contemporanea, la ricerca di Paolo Gobbi prende le mosse. In particolare fa propri gli assunti teorici sedimentati da Paul Klee nelle Shöpferische Konfession (1919) e riassunti nell’incipit: “L’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile”. Principi dottrinari che Gobbi restituisce nel lavoro quotidiano, frutto di un allenamento costante e severo in un continuo esercizio fenomenologico del gesto pittorico che mira alla configurazione del visibile scandagliando sempre più dappresso “quel fondo segreto, ove la legge primordiale alimenta ogni processo vivente”. E se Klee dopo anni ha riutilizzato nell’insegnamento al Bauhaus quel materiale didattico, il nostro, nel suo magistero presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata, ne continua a sviluppare i nodi problematici con l’umiltà di chi sa che la ricerca non avrà mai fine, anzi s’ingrosserà come un fiume in piena che può anche travolgerlo, ma questo è il destino dei “cercatori di senso” che si avventurano con gli strumenti ermeneutici a loro più congeniali verso l’apertura di nuovi orizzonti. Non deve dunque sorprendere il passaggio di quest’ultimo decennio affidato a composizioni di griglie e segni ortogonali, inserti grafici che vanno a scuotere la neutra quiete della superficie pittorica spazzando via le tremule presenze filamentose dei lavori precedenti. In realtà l’artista apre alla geometria ma per decostruirne la logica destrutturandola in un errare “erratico”. Ne destabilizza i fondamentali, acquisiti presso l’Istituto d’Arte di Macerata, rivisitandoli attraverso le crepe della “scrittura” e i rilievi delle tracce del “luogo della perdita” di Magdalo Mussio, suo maestro nell’Accademia di Belle Arti maceratese. Insomma ritiene doveroso fare i conti con la radicalità sperimentale e dissacrante della neoavanguardia come il termine a quo da cui ripartire per esaltare la funzione comunicativa dell’arte e far sì, come scriveva Dorfles nel ‘59, “che l’opera d’arte (a bella posta non dico ‘dipinto’ o ‘statua’, perché potrà trattarsi anche di latta, sacco, muro, fil di ferro e quanti altri mai materiali vengano ad essere utilizzati quali nuovi media di una composizione plastico-cromatica) non resti inespressa e inesprimibile, riacquisti la sua semanticità, diventi linguaggio e discorso… non già di concetti razionalizzati… ma per lo meno di immagini, di sentimenti, di embrioni formali”. E sugli embrioni formali l’artista concentra la ricerca più recente ad alto potenziale dialettico, come se una sorta di garbata ribellione gli imponesse di addomesticare le storiche “linee forza” in linee sinuose ad andamento libero nello spazio, in tracciati a gestazione continua e infinita. Come se dalla logica ortogonale cartesiana, dal principio di identità e dalla sillogistica, dominanti rispettivamente il linguaggio visivo e quello verbale, volesse assicurarsi una via di scampo alla ricerca di nuovi equilibri e nuove connessioni tutte da scoprire. Per questo lo spazio espositivo diventa lo spazio dell’opera, uno spazio-ambiente in cui autore e fruitore intrecciano i loro destini in un incontro del “terzo tipo” con la genesi del visibile. Un’occasione speciale, già riservata da Calvino ai visitatori delle “Città invisibili”, per mettere in guardia che solo apparentemente disponiamo di strumenti certi di decodifica del reale. Proprio sullo ‘scarto’ rispetto all’abitudine, su cui si basa il riconoscimento che acquieta ogni angoscia interpretativa, è giocato il percorso tracciato da Paolo Gobbi in “punta d’argento” per questa mostra site specific. Un approccio libero per guadagnare uno spazio di autonomia interiore, di esercizio critico nel rispetto per tutto ciò che è diverso e sfugge alla nostra immediata comprensione. Con questa ritrovata spontaneità e libertà fuori da ogni schematismo, l’artista si cala in un sentire prelogico, risale alle origini del momento inventivo e accostandosi al respiro del cosmo lascia la mano in balìa di forze che tracciano il segno sulla parete scabra per mappare realtà altrimenti invisibili. Tracciati appena percepibili che si snodano in sequenze spaziali ritmate nel tempo, che si allungano con lievissime ombre accennando un possibile ‘altrove’, tracciati che per essere captati invocano un environment immersivo nel silenzio pervaso di stupore.
Paola Ballesi
Paolo Gobbi è nato a San Severino Marche nel 1959. Si diploma in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Macerata, dove insegna dal 1998. Nel decennio precedente ha svolto attività didattica nelle Accademie di Lecce, Milano, Sassari e Urbino. Dalla fine degli anni Ottanta ad oggi ha esposto in mostre personali e collettive sia in Italia che all’estero. La pittura, nelle sue declinazioni più ampie, costituisce la centralità della ricerca artistica dell’autore: una pittura che non si limita in “citazione anacronistica” del passato ma che accetta il confronto con le istanze sperimentali della contemporaneità. Gobbi pertanto realizza, fino alla metà degli anni ‘90, lavori costituiti essenzialmente da assemblaggi di materiali di recupero, a loro volta connotati con sovrapposizioni di interventi cromatici. Nel decennio successivo, progetta e attua anche diverse esperienze visive, dove l’agire pittorico viene ampliato dal suo confine bidimensionale per espandersi nello spazio architettonico. Nei lavori realizzati dopo il 2005, anche se vi è un ritorno ai supporti di tela, carta e metallo, prosegue la ricerca “severa e rigorosa” che contraddistingue la fase precedente dove un “elementare alfabeto di immagini estremamente semplificate creano un gioco sapiente tra presenza
e assenza”.ecce, Milano, Sassari e Urbino. Dalla fine degli anni Ottanta ad oggi ha esposto in mostre personali e collettive sia in Italia che all’estero. La pittura, nelle