Oh gli acquerelli!
Eh, già! “Oh, gli acquerelli!” Gli acquerelli e non i pixel!. Una storia lunga, di poesia visiva, senza confronti, per fortuna!, si intende, con i pixel.
Comunicato stampa
”Oh, gli acquerelli!”
Eh, già! “Oh, gli acquerelli!” Gli acquerelli e non i pixel!. Una storia lunga, di poesia visiva, senza confronti, per fortuna!, si intende, con i pixel. Iniziata sicuramente in Estremo Oriente, dove la tecnica si praticava anche su seta, viene raramente impiegata in Olanda nel Seicento, per diffondersi nel secolo successivo in Inghilterra e in Francia, splendidamente usata anche da grandi artisti: Turner, Watteau, Fragonard .
In Italia, tra i primi, forse il primo, a sperimentarne le delicate proprietà espressive troviamo il napoletano Giacinto Gigante (1806 – 1876), che, non a caso, successe a dirigere la scuola di Posillipo ad Anton Pitloo (1790 – 1837), un olandese, appunto!, ma attivo nella capitale campana e ancora tra i primi a ricorrere all’en plein air.
Si tratta di una tecnica, che piuttosto che definire semplice, è in sé elementare: le pastiglie di colore, (volendo una matita per abbozzare il disegno), un pennello (o, se si vuole, due, uno più piccolo ed un altro più grosso) di setole morbide, una ciotola d’acqua, un foglio di carta (meglio un po’ spesso - uno dei trucchi più scontati consiste nel bagnarlo prima, ad esempio, con uno spruzzino, di quelli che si usano per inumidire i panni, quando risultano troppo asciutti per la stiratura). E buon lavoro! Ma attenzione ai facili entusiasmi.
Invito a provare imitando uno di questi acquerelli esposti, anche quello che può apparire più ‘alla mano’. L’esperimento risulta convincente nei confronti di quanti, di fronte all’arte contemporanea, sostengono che “quelle cose le so fare anch’io”.
Ho già accennato all’en plein air, che di fatto è a fondamento dell’attenzione diretta, sul posto, per gli scorci paesaggistici, come genere pittorico che ci giunge come modello diffuso e capace di attraversare, indenne, con le dovute profonde trasformazioni di sensibilità poetica, l’intero arco temporale, che dal realismo ottocentesco giunge a noi.
Ricompaiono (anche in queste opere in mostra), o piuttosto continuano a presentarsi, con altrettante rimodulazioni culturali e necessari aggiornamenti, riaffioramenti da atmosfere (per esempio quelle della stagione “informale”, con le opportune ‘varianti’), altri soggetti e generi fin troppo ben noti, come la natura morta e il tema dei fiori, che, a ben vedere, e, come si dice “col senno di poi”, sembravano tempo fa di fatto emarginati, scartati come desueti (chi ricorda che non troppi decenni fa era di moda l’aggettivo “obsoleto”!), accantonati da pretestuose istanze di ricerche, dimostratesi poi solo apparentemente più innovative.
E dunque che succede scorrendo lo sguardo tra questi acquerelli? A me sembra che se, certo, alcuni possono apparire come testimonianze di una ricerca poetica intima, ma in qualche modo “ingenua”, ma non intimista, che è una cosa ben diversa, altri, in buon numero, documentano, con estrema e delicata discrezione, punti di arrivo, ovvero di transito, pluridecennali, compiuti lungo percorsi di indagine visiva, articolati e indissolubilmente segnati non solo dalle corrispondenti memorie culturali, ma da quelle personali.
È questo, credo, un tratto non superficiale delle evidenti differenziazioni e, nel complesso, della o, se vogliamo, delle disperse condizioni di identità in cui siamo immersi.
Paolo Nesta