Alberto Ghinzani – Una linea lombarda
La mostra “Alberto Ghinzani. Una linea lombarda” è un’antologica sull’opera di uno dei protagonisti della scultura italiana contemporanea, forse l’ultimo erede lombardo della grande tradizione plastica che va da Medardo Rosso a Marini a Milano.
Comunicato stampa
Quello che mi interessa, alla fine, è sempre la stessa cosa: l’interrogazione della materia, nella sua fragilità e nel suo mistero. Alberto Ghinzani
La mostra “Alberto Ghinzani. Una linea lombarda" è un'antologica sull’opera di uno dei protagonisti della scultura italiana contemporanea, forse l’ultimo erede lombardo della grande tradizione plastica che va da Medardo Rosso a Marini a Milano.
La mostra ripercorre tutto il cammino espressivo dell’artista, mettendone in luce il rapporto con i maestri e documentando in particolare alcune stagioni della sua produzione meno note, ma di intenso fascino e rilevanza linguistica.
Di Medardo non mi aveva colpito un’opera in particolare, ma tutta la sua scultura, la sua idea di scultura: il suo lavoro sulla materia, sulla superficie. Alberto Ghinzani
La fragilità, nella scultura italiana moderna, “nasce” con Medardo Rosso. Promuovendo la cera a materia fondamentale della sua scultura, Medardo ha suggerito più di ogni altro che, come diceva lui stesso, “noi siamo scherzi di luce”. Siamo fuochi fatui, parvenze illusorie che scompaiono poco dopo essere comparse. Anche il maestro torinese, inoltre, ha lavorato a lungo sulla superficie, spesso scavando il blocco di cera in modo che occorresse osservarlo da un’angolatura frontale.
Medardo è un artista che Ghinzani ha amato fin dalla giovinezza, negli anni acerbi dell’accademia. Già in uno dei Taccuini del 1961 Alik Cavaliere (allora assistente di Marino Marini, al cui corso Ghinzani si era iscritto) annotava che un’opera oggi perduta del giovane allievo, L’uomo nell’ombra, era “una visione alla Medardo Rosso”.
Alla lezione di Medardo, però, Ghinzani ha subito avvicinato quella di Giacometti. Dal grande artista elvetico, visto in un viaggio a Parigi nel 1963, l’artista lombardo non ha ripreso forme o motivi, ma piuttosto un modo di pensare e interpretare le cose. Le opere di Giacometti esprimono quell’interrogativo sul destino che era all’origine anche del pensiero di Sartre e Camus, e raffigurano quell’andare senza meta, quel marciare non sapendo dove che animava le colature nomadi di Pollock, i grovigli dell’arte gestuale, i quadri senza punti cardinali dell’all over americano. Ma non solo. Le sue figure minime o gigantesche, memori del linearismo del Picasso surreale quanto di certe statue etrusche e egizie, fanno riflettere anche su quel qualcosa di immutabile che l’uomo, la donna e perfino gli animali mantengono lungo i secoli. Giacometti ha cercato appunto quell’essenza inalterata: che è poi un istinto di vita (e di morte) rimasto identico dall’epoca della cellula all’epoca del cellulare. Non a caso le sue figure sono prive di ogni dettaglio, oggetto, corredo.
Un’analoga aspirazione all’essenzialità e all’essenza si ritrova anche nell’opera di Ghinzani, che è sempre un esercizio di sintesi e di spoliazione, un procedimento per via di levare, una ricerca dei minimi termini delle cose, anche se non giunge mai a un incorporeo minimalismo.
Elena Pontiggia