Giovanni Termini – Residuale
È un progetto che racchiude una serie di lavori inediti e una foto meno recente che si collega in maniera calzante ai concetti centrali di reperto e recupero, due elementi che fanno da perno attorno al quale ruota la più ampia riflessione sull’archeologia.
Comunicato stampa
La galleria ARTCORE presenta la personale di Giovanni Termini dal titolo Residuale, corredata dal testo critico di Lorenzo Bruni.
Come nella mostra PULL, del 2012 presentata da Andrea Bruciati, anche in questa occasione Termini occupa lo spazio in maniera essenziale ed estremamente pulita, come la sua ricerca predilige.
È un progetto che racchiude una serie di lavori inediti e una foto meno recente che si collega in maniera calzante ai concetti centrali di reperto e recupero, due elementi che fanno da perno attorno al quale ruota la più ampia riflessione sull’archeologia. Giovanni Termini attraverso interventi minimali sublima oggetti ritrovati in opere d’arte pur conservandone il loro stato d’essere. È questo il caso della bilancia, gioco per bambini ritrovato dall’artista nel giardino circostante il suo studio, in uno stato di abbandono e quasi di mimetizzazione nel contesto naturale, che proprio come in un pratica di recupero archeologico, l’artista ripristina ed eleva ad opera, rendendolo testimonianza di un passato non troppo lontano che ben richiama una precisa condizione sociale. L’idea di reperto ritorna in quasi tutti i lavori presenti in mostra, sotto forma di oggetti ritrovati o modificati o come tracce di un percorso, quello umano misurato millimetricamente, in cui l’essere è al centro di una riflessione sullo stato attuale, sul suo ruolo all’interno della società, sulla complessa condizione che attraversiamo e sulla posizione che occupiamo in un gioco sociale che per quanto nostro, poco ci appartiene. Secondo Termini niente sembra fatto per restare, ma piuttosto tutto sembra esistere per lasciare una traccia, un ricordo pronto ad essere poi recuperato e ricontestualizzato in un presente colmo di memoria.
L’aspetto estremamente attuale del ciclo di lavori esposti crea un legame intenso tra la storia più contemporanea e lo stato presente delle cose, creando una perfetta lettura della società, dell’indissolubile rapporto con la storia che ritorna ciclica nelle sue ripetitive pratiche. È un progetto carico di senso ma asciutto e secco nelle forme e nelle scelte costruttive, un binomio che l’artista ben conosce e magistralmente mette in pratica creando nello spettatore uno sbilanciamento, una sorta di perdita di equilibrio e stimolando una ricerca ossessiva di risposte alle infinite domande che quelle immagini apparentemente sorde e atemporali sono in grado di suscitare.
RESIDUALE
testo di Lorenzo Bruni
Giovanni Termini, per la sua seconda personale alla galleria Artcore di Bari dal titolo “residuale”, realizza un vuoto pneumatico “inserendo” nello spazio espositivo oggetti differenti che appaiono come nell'istante di trasformarsi in scultura e viceversa. La prima sensazione che emerge dalla visione della mostra è quella di avere a che fare con un ambiente frammentato proprio dalla richiesta di un eccesso di autonomia da parte delle singole “presenze”: una fotografia slavata di un cantiere con container colorati impilati tra loro; dei grandi pannelli in cartongesso incorniciati sotto vetro per preservare, rendendole inutilizzabili, le viti infisse in essi, posti in relazione ad una parete ricoperta di carta millimetrata; un pannello giallo da cantiere sotto vetro e cemento; una lampada riadattata per illuminare oggetti trovati nello studio dell'artista; un dondolo per bambini, salvato da un parco, su cui le tracce dell'abbandono sono ancora evidenti anche dopo la loro depurazione e infine il video con un montaggio a scatti della scoperta dell'oggetto/visione appena citato. Queste opere si rivelano come particelle frammentate di mondo. Si tratta di residui, ma di cosa? Devono essere catalogati come reperti di oggetti industriali, testimonianze del periodo modernista o opere d'arte? La ricerca di questo tipo di risposta, comunque parziale, permette all'artista di far concentrare l'attenzione del pubblico su due macro-sistemi differenti. Il primo è quello della crisi economica che ha portato con sé una destabilizzazione sociale e l'altro è quello del ruolo della scultura nell'era mediatica e della smaterializzazione per mezzo della globalizzazione dell'informazione. Questi due campi di interesse creano, interagendo tra di loro come accade nel gioco del ping pong, la sostanza processuale che anima le strutture oggettuali presenti in questa mostra.
L'idea di praticare una meta-scultura è sempre stato il motore del percorso artistico di Giovanni Termini e forse anche del lungo sodalizio maestro-allievo con Eliseo Mattiacci. Soltanto questa particolare attitudine gli ha permesso di instillare riflessioni più ampie sull'attuale identità della tecnica scultorea, sulla relazione attiva/passiva che l'oggetto scultoreo stabilisce con lo spettatore e sulla capacità di quest'ultimo di sintetizzare la realtà e di inserirsi in essa. La sua pratica ha sempre tentato di superare il concetto di installazione, introdotto negli anni settanta da artisti come Dennis Hoppenheim o Jannis Kounellis, ma anche del site specific praticato dai suoi coetanei. Allo stesso tempo però non si è rifugiato neanche nel ruolo della scultura “monumentale” impegnata con i temi della “rappresentazione”, che Arturo Martini denunciava come venire meno nel 1945 con il celebre testo “scultura lingua morta”. Quello che compie Giovanni Termini con le sue opere è riuscire a predisporre un dialogo tra il gesto dello scultore e quello che l’essere umano compie nella sua quotidianità per ammetterne similitudini e differenze di implicazioni. Esemplare di questa sua convinzione è l'opera di tipo ambientale, o ambientata, esposta in galleria e dal titolo “Necessità di una posizione ben precisa” del 2014, la quale è costituita da due pannelli in cartongesso incorniciati e apposti su una parete ricoperta di carta millimetrata. In questo caso i frammenti di un'architettura effimera, preservati all'interno di due cornici, esibiscono le congiunzioni dei pannelli prefabbricati, le stuccature, i tasselli e le viti conficcati esattamente nel punto evidenziato dalla croce blu. Quello che l’artista mette in scena è ciò che solitamente rimane nascosto e che, in questo caso, da “spazio funzionale” diviene l'oggetto dell'osservazione. Questo tipo di coscienza visiva, sembra dirci l'artista, può avvenire soltanto se c'è una dimensione progettuale adeguata. Per questo le due cornici con i “preziosi reperti” sono posizionate su un muro ricoperto di carta millimetrata, utilizzata normalmente per disegnare gli esecutivi da parte dei geometri o dagli architetti. L'associare i pannelli (interpretazione particolare del ready made) all'installazione con la carta millimetrata rivela che l'artista non punta solo a voler rappresentare l'incontro tra lo spazio fisico e quello mentale, ma la manifestazione del tempo “dell'attesa” che questo (l'idea e il possibile) si palesi, si concretizzi e prenda posizione. La “necessità di una posizione ben precisa” si rivela, così, connessa alla posizione fisica dello spettatore/autore in relazione a quella specifica manifestazione di spazio e di tempo. Per Termini, infatti, solo questa consapevolezza può portare al pubblico la determinazione di assumere una posizione rispetto alla attuale crisi di sistema (liquidata per semplificazione come crisi economica) che la società post colonialista sta vivendo in questo momento e di conseguenza a rivalutare in essa il nuovo ruolo dell'oggetto scultoreo.
La fotografia “in attesa”, del 2007, rappresenta prima di tutto una superficie lattiginosa che offusca e sposta fuori dalla temporalità fisica la scena di una serie di container, impilati sulla banchina di uno scarico merci. Quest'immagine è ritoccata al computer per eliminare il colore e le indicazioni narrative collegabili a quel contesto specifico. Infatti, “quell'inquadratura di realtà” non ha niente a che fare con l'appostamento per la ricerca dell'istante atmosferico ideale come accadeva invece per le foto di un Luigi Ghirri, con le quali descriveva la fiducia collettiva nel boom economico dell'Italia in farsi degli anni sessanta. Giovanni Termini con quest'opera punta a ricreare la condizione limite tra il visibile e l'invisibile, quasi per ricordarsi che nell'opposizione tra astrazione e figurazione esiste una terza via, che a suo tempo era stata inaugurata dalla nuova spazialità delle opere di Lucio Fontana. I tagli sulla tela o i vuoti nella materia di argilla (poi fusa in bronzo) evocano il gesto che ha generato quella stessa presenza e allo stesso tempo disegnano e progettano uno spazio altro, uno spazio che è sia fisico che mentale. Scomodare una figura centrale del Novecento come quella di Fontana è necessario adesso per contestualizzare la tipologia di funzione che hanno gli oggetti di Giovanni Termini dentro la sua pratica scultorea. I suoi oggetti e le sue immagini puntano a ristabilire un principio di realtà o un’ intensità di dialogo con essa. Quest'immagine, ci suggerisce, che per Termini l'atto scultoreo non è creazione di nuovi segni/immagini o salvaguardia degli oggetti/segni che già costituiscono il mondo, ma consiste nel trovare un giusto equilibrio tra questi due approcci (l'assemblaggio e il ready made) considerati fino ad adesso due percorsi paralleli e non dialoganti. Le opere di Giovanni Termini, che siano oggetti o immagini, si rivelano come dei gesti che cercano di far conciliare i massimi sistemi con le singole esperienze della vita. Questo è il caso anche dell'opera “tentativo di ripresa” , composta da un pannello di legno dipinto di giallo, usato normalmente nell'edilizia per creare uno stampo in cui colare il cemento dando vita ad una struttura portante. In questo caso però, a differenza dell'installazione ambientale realizzata alla Fondazione Pescheria (a cura di Ludovico Pratesi) nel 2013, che consisteva in un’armatura per la formatura di pilastri per un’unità abitativa, si tratta di un pannello singolo che non può contenere, quindi di un volume che proprio per questo è ricoperto, non del tutto, da uno strato sottile di cemento su cui è appoggiata una lastra di vetro a sua protezione. Si tratta di un oggetto in-potenza che rappresenta un momento temporale specifico tra un prima e un dopo, dal momento che l'opera aspetta un aggiunta di materia per essere terminata e resa completa. La domanda che nasce spontanea è: da chi? Chi è che deve prendersi la responsabilità di finire questa superficie? Proprio questa domanda è legata al contesto storico attuale, ma che pericolosamente in questo caso si intreccia a quella sul ruolo dell'artista. Infatti, se in questo presente espanso risultano essere tutti protagonisti e tutti creativi: a cosa serve l'artista? A chi serve? Con quest'opera Termini porta alle estreme conseguenze la sua attitudine a non voler creare nuove forme fine a se stesse, piuttosto a condividere il raffreddamento di un segno esistente precedentemente, e che per questo si può tramutare in un'istante. Sempre dall'esigenza di raggelamento di un momento scaturisce il video “Jumpcut”, il quale è girato nella parte esterna dietro allo studio dell'artista e di cui un’immagine è stata usata come invito della mostra. In questo caso si ha una perlustrazione dello spazio boscoso per avvicinare l'oggetto silente in esso, che consiste in un gioco del dondolo per bambini. Il movimento delle immagini è costituito da piani fissi che si avvicendano uno dopo l'altro con tagli netti e passaggi bruschi. Non c'è rappresentazione del movimento, ma una stratificazione delle sezioni di spazi che dividevano il punto iniziale della camera fino all'avvicinamento finale. Nel momento che lo sguardo incontra l'oggetto, il gioco, desiderato e agognato, questo risulta essere una presenza fuori dal tempo storico, proprio perché ottenuto dall'assemblaggio di materiale di recupero come i tubi innocenti e anche perché porta su di sé le tracce (la ruggine e il muschio cresciuto sulle sedute di legno) del suo essere stato dimenticato perdendo la sua funzione e ragione d'esistere. Questo video è una riflessione sul linguaggio video, o meglio, sulle immagini in movimento nel cinema e sul suo potere salvifico di alzare il livello di attenzione sulle storie degli eroi senza voce.
“bilancia” è una scultura che indaga più di altre opere presenti della mostra “residuale” la necessità di praticare una terza via tra il ready made e l'assemblaggio. L'oggetto in questione è il soggetto del video “Jumpcut” e corrisponde alla presentazione di un oggetto della realtà, che però era il frutto di un assemblaggio di materiale di recupero. La terza via è permessa dalla scelta di non esporlo com’era, ma di salvarlo per mezzo di un bagno di zinco. Questa purificazione però gli ha restituito una nuova vita ma allo stesso tempo ha messo in evidenza la corrosione del tempo, che dichiara innanzitutto l'impossibilità del suo utilizzo come gioco per cui era stato creato poiché porterebbe ad una sua rottura e quindi alla perdita di equilibrio dell'occupante. I temi che solleva questo “gesto” dell'artista su un oggetto preesistente sono legati alla necessità di trovare un nuovo equilibrio dopo la crisi economica e la crisi del ruolo dell'artista e ha a che fare soprattutto con l’indagine sullo spazio della realtà e non su quello dell'illusione della poetica lirica fine a sé stessa. Proprio questi due temi sono sviscerati fino al parossismo dall'installazione dal titolo “reperto”, che si propone al centro della stanza come l'oggetto estraneo rispetto a tutti quelli appena descritti, poiché si presenta subito come un assemblaggio e non come una presenza. Infatti, se le altre opere sono costituite da un particolare dialogo tra superfici differenti che evocano così un'azione che sta per accadere o che dovrebbe accadere (finire la superficie di cemento, appendere un quadro sui pannelli di cartongesso, salire sul dondolo), in questo caso va ad esibire le singole parti di cui è composto. È una composizione con una lampada, forse di precedente uso medico, che illumina un piedistallo di vetro appoggiato momentaneamente, dato che non risulta in squadra con la base della lampada, sulla cui parte superiore si trova un oggetto cilindrico composto a sua volta da: un barattolo di zinco, cerchi di plastica usati nel tiro al bersaglio e cemento; mentre, esattamente nella parte inferiore, si trova la carotatura di una roccia per fare un saggio scientifico. Questo lavoro è composto dagli elementi che si trovavano nello studio dell'artista. Molto probabilmente la mostra ha preso forma nella mente di Giovanni Termini partendo proprio da questo ingombro da inserire nello spazio espositivo. Quest’ultimo lavoro porta alle estreme conseguenze l'idea di residuo…il residuo che è prodotto non solo dal mondo reale di origine modernista, ma anche dal mondo dell'arte e dallo studio dell'artista. Questa struttura celibe mette ancora più in evidenza l'obiettivo delle altre opere in mostra di evocare lo spazio mentale e fisico di fronte alle superfici o alle presenze che ci sottopone. Il residuale è quella cosa che il filosofo tedesco Martin Heidegger chiamava “io nel mondo” e che deve essere non solo conservato, ma riadattato: l'oggetto da salvare è sempre “l'essere umano”.