Emanuele Dottori / Maurizio Gabbana – Tutta mia la città
Sia nelle città fotografate da Maurizio Gabbana, sia in quelle dipinte da Emanuele Dottori, la scelta dell’ambientazione notturna è funzionale alla ricerca di intimità con lo scenario urbano, al desiderio di un’immersione al suo interno e finanche di una sua appropriazione, favorita dalla perdita dei contorni delle cose, dalla rarefazione di oggetti e persone, da una sorta di desertificazione dei sensi che accade a volte (queste volte) col calare del buio.
Comunicato stampa
Città, notturni e deserti
Prima ancora di segnalare che il titolo di questa mostra non contiene un refuso (il cortocircuito tra
singolare e plurale è voluto), forse è opportuno trascrivere il verso successivo della canzone dalla
quale è tratto. Il ritornello di uno dei più grandi successi dell'Equipe 84 (datato 1969), dopo "tutta
mia la città", recita: "un deserto che conosco".
Sia nelle città fotografate da Maurizio Gabbana, sia in quelle dipinte da Emanuele Dottori, la scelta
dell'ambientazione notturna è funzionale alla ricerca di intimità con lo scenario urbano, al desiderio
di un'immersione al suo interno e finanche di una sua appropriazione, favorita dalla perdita dei
contorni delle cose, dalla rarefazione di oggetti e persone, da una sorta di desertificazione dei sensi
che accade a volte (queste volte) col calare del buio. I deserti ovviamente non sono tutti uguali, non
lo sono neppure i notturni e tantomeno le città. Nelle opere di Gabbana e in quelle di Dottori si
possono anzi scorgere due tipologie antitetiche di queste categorie, sebbene allo stesso modo
coinvolgenti.
Il deserto evocato dalle fotografie di Gabbana è un vuoto appagante, una scatola foderata di
architetture monumentali e cariche di storia, il cui ruolo consiste però nell'arredare una sontuosa
vacuità. Una luce precisa ma allo stesso tempo straniante si ritaglia il compito di delineare le vie di
fuga dall'immagine, di incanalare lo sguardo verso un'oscurita cangiante. Le uniche figure che
possono avere luogo in questa situazione sono non a caso dei fantasmi: gli spettri dipinti da Roberto
Bosco, quanto più saturano le piazze e le architetture milanesi fotografate da Gabbana, tanto più le
alleggeriscono, le smaterializzano, le svuotano, in una prospettiva ascendente.
La traiettoria che invece caratterizza i dipinti di Dottori è quasi sempre discendente. È infatti la
traiettoria delle incursioni aeree e delle bombe che devastano le sue città, i suoi teatri di guerra colti
in momenti notturni. L'oscurità rappresentata in queste opere, più che buio, è letteralmente,
etimologicamente tenebra, una parola che ha la radice in comune con il verbo temere e che, nella
sua accezione originaria, contempla un'idea di minacciosa immobilità, di un arresto di cose e persone
che si consegnano in tal modo alla distruzione. In queste città desertificate dal conflitto la luce ha la
singolare funzione di lasciar incuneare le tenebre, di scandirle nello spazio, di conferire loro un ritmo
percettivo. Un ritmo molto diverso da quello finto-malinconico (e in realtà un po' gongolante) della
canzone dell'Equipe 84, una cadenza meno orecchiabile e decisamente più allarmante, anche se altri
due versi del brano sembrano trovare riscontro sia nei dipinti di Dottori sia nelle foto di Gabbana. I
versi in cui si dice che "le luci bianche nella notte/ sembrano accese per me".
Roberto Borghi