Giacomo Carnesecchi – Infinità finita
L’installazione è una sorta di parziale ricostruzione di un cielo fantastico, con 70 riproduzioni fotografiche sulle quali è intervenuto graficamente.
Comunicato stampa
“Infinità finita” di Stefano Gambini
Secondo Jorge Luis Borges il deserto è il labirinto più grande del mondo. Ho sentito questa affermazione per caso, di recente, poi quando ho visto le prime immagini di questo progetto di Giacomo, la frase mi è tornata in mente. Così ho deciso di partire da questa bella metafora di Borges, ma per andare oltre: il deserto offre infinite direzioni ed altrettante occasioni di smarrirsi in esso, ma il cielo, nello stesso senso, è un labirinto ancora più vasto, in cui perdersi di giorno, nel bagliore del sole, tra i riflessi delle nubi, i colori dell’iride, di notte tra le miriadi di stelle oltre l’orizzonte circolare della luna.
Se il cielo è il labirinto per eccellenza, a perdersi in esso nel guardarlo è soprattutto l’uomo, che tra tutti gli animali è quello che, assumendo la stazione eretta, ha potuto liberare gli arti superiori e inventare per essi miriadi di funzioni differenti, alcune delle quali si manifestano in modo eccellente solo nelle varie Arti. “Antropos”, è l’essere che guarda in alto, su di sé, verso il cielo, (Platone, Teeteto, l’ozio filosofico 171c-176a - ÀNTHROPOS = ÀNÔ (su); ATHRÈO (guardo) + ÒPS (occhio); alla latina SÙSPICIENS (GUARDANTE IN SU).
in quel “non-luogo” illimitato, che lo interroga da sempre, come una Sfinge eterna.
I primi uomini hanno sentito il bisogno di lasciare dei disegni come testimonianza del loro passaggio nel mondo. Usarono terre colorate, impastate con grassi animali, e i loro tracciati sulle pareti rocciose delle caverne ancora oggi ci commuovono. Ha ragione Picasso che, dopo aver visto le grotte risalenti al paleolitico (19.000-15.000 a.C.), ha detto: “Da Altamira in poi tutto è decadenza”.
Le articolate grafie nere, tracciate da Giacomo con pastelli ad olio, Oilbar, mi ricordano per la loro matericità quei disegni lasciati sulle pareti rocciose. Queste ultime, però, sembrano essere svanite nel tempo, per le mutazioni dello spazio, restando sospese come per miracolo, nell’aria, mantenendo l’originaria spontaneità primitiva, rafforzata da una certa brutalità per il contrasto inevitabile coi cieli azzurri, le nuvole bianche, quegli sfondi ideali, dall’apparenza innocua, che anche Magritte amava in modo particolare per mettere in scena le sue magie surreali.
L’installazione di Giacomo consiste in una sorta di parziale ricostruzione di un cielo fantastico, con 70 riproduzioni fotografiche, ciascuna di 33 x 48 cm, montate su due pareti, senza cornice, ad una distanza di circa 5 cm l’una dall’altra. Si tratta dell’antro di una caverna svanita nello spazio-tempo, le cui pitture sono rimaste in piedi, come uno scheletro vivo? Mi piace pensarlo così ma questa è solo una possibile lettura che non esaurisce l’intento poetico dell’artista. Nessuna interpretazione può esaurire un’opera d’arte che sia davvero tale.
Quello “scheletro vivo” è piuttosto un labirinto dai mille percorsi possibili?
Ogni opera offre “vie costruite per l’occhio che tasta il quadro come una bestia tasta il pascolo” (Paul Klee)
Un labirinto può essere un percorso per il corpo, per lo sguardo, per il pensiero e il sentimento, o per tutte queste cose insieme.
Il labirinto è una costruzione mentale che ricorre in tutte le civiltà umane, in forme diverse ma sempre ben riconoscibili, perché è un’immagine della vita umana, che per molti versi è una marcia senza speranza, ma che l’uomo, giustamente, non ha mai accettato in questi termini. L’arte e l’etica sono due modalità con cui l’uomo arricchisce la propria esistenza, di senso e speranza. L’arte e l’etica, ciascuna per proprio conto, sono due ambiti operativi che fanno sentire l’uomo libero di poter fare delle scelte. Senza la libertà non avrebbe senso alcuna legge morale, perché ogni legge pone sempre l’uomo di fronte a una scelta, la quale è valida solo se libera. Per l’arte credo valga lo stesso, solo in virtù della libertà ha senso che vi siano norme estetiche che ogni artista può accettare o rifiutare, confermare o rinnovare. Nel primitivismo di Giacomo trapela un’estrema ricchezza di riferimenti culturali. Poiché egli risale agli albori dell’umanità dobbiamo supporre, immaginare, che in questi tracciati neri sia assaporabile molta storia dell’arte. Come un sommelier fa con i vini pregiati, ho cercato di trovare nei segni di Giacomo ogni sfumatura di sapore, distinguendo profumi, gusti e retrogusti, profondità, sottigliezze. In questo tipo di ricerca ovviamente si può sempre sconfinare con l’immaginazione oltre certi limiti, ma forse si tratta soltanto di orizzonti illusori, oltre i quali non solo è lecito andare, ma bisogna farlo.
I segni di Giacomo sono imparentati con le costruzioni “figuratiste” di Miradario, una sorta di grammatica della figurazione, in cui s’intravedono le operazioni costitutive delle cose, es.: “Spazio”, con il segno che frammenta il foglio permettendo rapporti come “sinistra-destra”, “sopra-sotto”, “dentro fuori”, ecc.; “Tempo”, considerando una pluralità di segni un tutt’uno, con la categoria di “simultaneità”. “Figure”, costituite con i rapporti interni a un contorno, ignorando lo sfondo; “Forme”, ottenute operando al contrario rispetto alle figure.
Il “Ritmo” è un altro elemento importante di questa installazione. Esso è reso evidente, nella sua regolarità, dall’uniformità delle proporzioni riscontrabili nei tagli fotografici e nelle distanze tra le singole foto; tali indici mostrano l’applicazione consapevole del modulo sommativo, in cui il rapporto posto segue le unità articolate (U-U-R). Il ritmo non si osserva, l’artista lo costituisce, il fruitore lo rigenera in sé. Dalla facilità, immediatezza e spontaneità delle operazioni deriva il gradimento o il rifiuto. L’idea romantica che un’opera d’arte sia qualcosa da contemplare, va rivista. L’etimologia stessa della parola “contemplare” ci aiuta in tal senso. Lo spazio delimitato dall’augure per le sue magiche osservazioni era il “Templum”, la radice di questa parola è nel greco “témnein”, ‘tagliare, suddividere’. Giacomo esalta in questa installazione l’aspetto inatteso, attivo, di quel concetto che sembrava invece incarnare il passivismo del conoscere filosofico. Questa osservazione che ripropongo nell’analisi delle opere di Giacomo è esattamente la stessa che più volte ho applicato ai tagli effettuati da Miradario. Un artista che elabora una composizione effettua sempre, mentalmente, dei “tagli” che sono il risultato di una frammentazione ritmica. Da questi “tagli” si sviluppano in varie fogge le opere.
Il titolo della mostra, “Infinità finita”, evoca in modo chiaro il concetto d’infinito, ma non quello potenziale, leopardiano, che è sempre incompleto, bensì l’infinito in atto, che si può avere, per certi aspetti, tutto in una volta, per esempio in un segmento di cui si hanno gli estremi, che matematicamente può essere indicato come “1”, “unità”, “intero”, ecc. e che può essere suddiviso all’infinito: 1-1/2-1/4-…1/1000… ecc.
Nell’arte islamica la divinità non può essere raffigurata con fattezze umane, animali o vegetali, è quindi evocata con tassellature a figure geometriche e complessi moduli a intreccio, modelli dell’infinito potenziale. Il geniale grafico olandese Escher ha utilizzato in modo fantasioso molti modelli matematici. Per l’infinito in atto, per esempio, ha utilizzato il modello del disco di Poincaré, un piano non euclideo, relativo alla geometria iperbolica. Un altro schema usato da Escher è un complesso reticolo geometrico che reitera un’immagine rimpicciolendola all’infinito, con il cosiddetto “effetto Droste”.
Seguendo Giacomo, prendendo alla lettera il titolo scelto per la mostra, mi vengono in mente le parole di Amleto, atto II, scena II: «Oh Dio, potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e sentirmi re dello spazio infinito». Bellissima immagine che piace tantissimo a fisici come Stephen Hawking, il teorico che ha messo in relazione la teoria del “Big-Bang” con la “Teoria dei Buchi Neri”, ipotizzando una “singolarità” all’inizio dello “Spazio-Tempo”, escludendo, a vantaggio di una ripetibilità e controllabilità dei risultati (scientificità), ogni ricorso a spiegazioni trascendenti (Dio, atto della creazione, ecc.).
Quando un artista è all’opera, il suo fare è segnato dalla prevalenza dell’atteggiamento estetico, costitutivo dei ritmi, su tutti gli altri atteggiamenti. In questo quadro operativo la sua attività risulta in piena autonomia, nel senso etimologico del termine, che cioè “è legge a se stesso” (=“autos” + “nomos”). Tutti i vari “Giochi dell’Arte” sono generati con questa impronta, per dirla coi latini: “iuxta propria principia” (Telesio Bernardino, nel “De rerum natura iuxta propria principia”).
In questa mostra-installazione di Giacomo, io riconosco tale impronta.