Effetto speciale e oltre
Film infantili per adulti, lungometraggi decisamente “lavorati” per infanti. Esiste una via di mezzo a tutto questo? Sì, e ha un percorso tracciato a partire da “Se mi lasci di cancello” di Gondry. Fino, come si dice, ai giorni nostri.
Specialmente nei mesi estivi, e sempre più negli ultimi anni, le sale cinematografiche sono inondate di polpettoni fumettistici ad alto tasso di effettacci, quasi sempre ormai in 3d. Vari osservatori hanno già notato uno strano processo in atto nel cinema hollywoodiano dell’ultimo decennio: mentre i film per adulti diventano sempre più insulsi, banali e infantili, i film d’animazione per bambini rivelano una straordinaria complessità nell’impiego dei moduli narrativi e nell’approfondimento psicologico dei personaggi.
Ora, nel cuneo tra questi due picchi, si sta inoltrando un nuovo (ma è proprio così nuovo?) genere. L’annuncio, in qualche modo, c’era già stato con Se mi lasci ti cancello (The Eternal Sunshine of the Spotless Mind, Michel Gondry, 2004): lì, l’uso sapiente degli effetti speciali era finalizzato alla comunicazione di una storia intelligente, che parlava di rimorso, rimozione, relazione tra memoria e identità. Jim Carrey che si inoltra tra scaffali di libri che perdono velocemente la loro connotazione e si trasformano in volumi bianchi è una di quelle immagini spettrali difficili da dimenticare, proprio perché sedimentano e richiamano lo spirito di un’epoca precisa.
Qualcosa del genere avviene con I guardiani del destino (The Adjustment Bureau, 2011), scritto e diretto da George Nolfi, e liberamente ispirato a un racconto di Philip K. Dick. Certo, le narrazioni dickiane sono perfette per chi si vuole inoltrare ai confini tra i generi, e sono state utilizzate proprio in questo senso a partire dall’adattamento seminale di Blade Runner (Ridley Scott, 1982). Le successive traduzioni sullo schermo (Total Recall, Screamers, Minority Report, Paycheck, Next) hanno configurato, come spesso capita, un tradimento sostanziale delle rispettive fonti, con l’unica e memorabile eccezione di A Scanner Darkly (Richard Linklater, 2006) – non a caso, il film meno conosciuto del gruppo.
Nel caso de I guardiani del destino, Dick è nell’atmosfera psicologica della narrazione, sospesa tra paranoia e teologia contemporanea. Il destino degli individui è scritto su quaderni “animati”, consultati da guardiani-angeli vestiti nostalgicamente come agenti federali degli anni ‘60, che frequentano però i negozi giusti. La tessitura della realtà è una maestosa sceneggiatura che non ammette deroghe al controllo dall’alto, al punto di condizionare le scelte e addirittura i pensieri dei due protagonisti.
Come viene resa sullo schermo questa trama ambiziosa e (solo) apparentemente anti-cinematografica? Innanzitutto, attraverso un sottile quanto elementare lavoro sullo stile: quando i guardiani entrano in azione, infatti, le inquadrature e i movimenti della cinepresa sono estremamente geometrici e controllati, mentre ogni volta che il racconto devia le riprese si fanno molto più fluide, affidandosi alla camera a mano.
Ma, soprattutto, è la gestione degli effetti speciali a contenere buoni auspici per il futuro. Non c’è infatti alcuna sovrabbondanza, nessuno spreco: il concetto che soprassiede il film è quello della “discrezione”. Più parco e discreto è l’uso degli effetti, tanto maggiore sarà l’effetto di meraviglia e sorpresa.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #2
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