Il Rigore e la Grazia
Un tesoro ‘segreto’ ritrovato. Un nucleo di opere poco conosciute, dipinte da grandi artisti del Seicento fiorentino e accuratamente restaurate, sono restituite alla fruizione del pubblico e esposte in mostra fino a maggio prossimo negli ambienti annessi alla Cappella Palatina di Palazzo Pitti.
Comunicato stampa
Un tesoro 'segreto' ritrovato. Un nucleo di opere poco conosciute, dipinte da grandi artisti del Seicento fiorentino e accuratamente restaurate, sono restituite alla fruizione del pubblico e esposte in mostra fino a maggio prossimo negli ambienti annessi alla Cappella Palatina di Palazzo Pitti. Realizzata in epoca lorenese per volere di Pietro Leopoldo, la Cappella è ancora oggi aperta al culto, ma era visitabile fino ad ora solo in rare occasioni. La mostra costituisce una grande opportunità che vede unirsi il principio della tutela del patrimonio territoriale fiorentino con quello della sua valorizzazione, grazie ai restauri effettuati appositamente e alle nuove sale espositive, anch'esse recuperate e inserite da oggi nel circuito di visita del Museo degli Argenti.
Il tesoro esposto in mostra proviene quasi interamente dal patrimonio della compagnia di San Benedetto Bianco, che è stata una fra le più importanti e prestigiose aggregazioni laicali fiorentine. Fondata nel 1357 presso il monastero camaldolese di San Salvatore, ma trasferitasi presto (1383) nel convento domenicano di Santa Maria Novella, la Compagnia entrò sotto la stretta influenza spirituale dell'ordine dei Predicatori e trovò inizialmente sede nell’area dell’attuale Chiostro Grande e poi, in via definitiva, in alcuni locali appositamente edificati da Giorgio Vasari nel 1570 all’interno del Cimitero Vecchio. In questa sede rimase fino alla costituzione di Firenze Capitale, quando il Comune decise di allargare via degli Avelli con l'abbattimento del recinto cimiteriale di Santa Maria Novella e dei locali di San Benedetto Bianco. La Compagnia continuò tuttavia la sua attività prima in un nuovo oratorio di via degli Orti Oricellari e successivamente presso la parrocchia di Santa Lucia sul Prato, dove si estinse. Uno degli ultimi atti della Compagnia fu la cessione alla Curia arcivescovile di Firenze di tutto il patrimonio artistico che aveva accumulato nel corso dei secoli, tramite commissioni dirette o attraverso donazioni dei confratelli: la maggior parte delle opere d’arte fu depositata durante la Seconda Guerra Mondiale nel Seminario arcivescovile di Cestello e lì, ancora, si trova tutt’oggi.
Il desiderio di rendere sempre più sontuoso l’oratorio e la sede della confraternita aveva infatti spinto molti confratelli a donare dipinti, oggetti sacri e paramenti; per di più, tra i membri della Compagnia, oltre a componenti della famiglia dei Medici, nonché teologi, filosofi, letterati e scienziati, vi furono anche numerosi artisti: Matteo Rosselli, Jacopo Vignali, Carlo Dolci, il Volterrano e Vincenzo Dandini, solo per citarne alcuni. Molti di loro dipinsero per propria devozione alcune opere presentate in mostra che ben esprimono, per lo stile e la scelta dei soggetti raffigurati, la spiritualità penitente di San Benedetto Bianco, testimoniataci dalle opere a stampa e manoscritte del frate correttore Domenico Gori, quali gli Esercizi spirituali ad uso esclusivo dei confratelli, esposti in mostra.
Il centro della spiritualità della Compagnia, tanto per l’originaria derivazione benedettina quanto per l’influsso del Gori, era il sacrificio di Cristo, sommo modello di perfezione a cui ci si poteva avvicinare con un lento e faticoso processo di elevazione spirituale, svolto attraverso penitenze e lunghe visualizzazioni interiori. La meditazione frequente di quel mistero doveva sortire nei confratelli l’effetto di una vera e propria ‘immedesimazione’, al punto da provare gli stessi ‘affetti’ – cioè i sentimenti – sperimentati da chi fu presente alla Passione, come la Vergine Maria, san Giovanni e lo stesso Gesù. Per questo motivo in San Benedetto Bianco erano presenti diverse immagini che ripercorrevano le tappe principali della Passione ed esortavano continuamente i confratelli alla mortificazione spirituale e corporale di se stessi.
Il Cristo sul Calvario, gli strumenti della Passione e la Croce erano i soggetti più rappresentati. Nel ricetto d’ingresso, Vincenzo Dandini aveva dipinto una pala d’altare con l’Orazione di Gesù nell’orto, poi sostituita nel 1646 da un dipinto dello stesso autore raffigurante Cristo caduto sotto la croce. Il soggetto della prima pala fu rivisitato poco dopo da Matteo Rosselli in un affresco situato nella testata di una loggetta che fiancheggiava il cortile interno della Compagnia, denominato appunto ‘orto’, in una stretta analogia con l’Orto degli ulivi dove Cristo diede principio alla propria agonia. In una stanza situata dietro la chiesa principale e dove erano collocati i confessionali, venne posta nel 1653 la tela che qui è attribuita ad Agostino Melissi, raffigurante la Flagellazione di Cristo alla colonna, il cui soggetto va inteso in rapporto alla pratica della ‘disciplina’ – cioè l’autofustigazione – che i confratelli praticavano in quell’ambiente (la corda sul primo piano del dipinto la richiama esplicitamente).
Oltre che con i dipinti presenti in Compagnia, il tema della Passione veniva divulgato mediante piccoli quadri o immagini a stampa – ad esempio l’Ecce Homo di Carlo Dolci o il Cristo piagato del Volterrano, artisti entrambi membri di San Benedetto Bianco – destinati spesso a confratelli amici, per uso privato e domestico, come continui richiami visivi a rivolgere il pensiero al sacrificio amoroso del Cristo, e al suo patimento, atto di redenzione per l’umanità.
La donazione più importante ricevuta dalla Compagnia è la serie di otto tele a soggetto biblico che il confratello Gabriello Zuti si era fatto dipingere per la propria abitazione nella seconda metà degli anni Quaranta del XVII secolo, e che lasciò a San Benedetto Bianco alla propria morte nel 1680. Si tratta di un ciclo unico, con capolavori di alcuni fra i maggiori artisti del Seicento fiorentino, i cui soggetti tratti dal Vecchio Testamento – scelti con l’ausilio di qualche dotto confratello – alludevano ad eventi precisi della vita familiare dello Zuti, segnata indelebilmente dalla tragedia della peste del 1630. Ricordiamo Giacobbe ed Esaù, di Lorenzo Lippi, Giaele e Sisara di Ottavio Vannini, Ritrovamento di Mosè di Jacopo Vignali, Geroboamo e il profeta Achia di Vincenzo Dandini, Ripudio di Aga di Giovanni Martinelli, Guarigione di Tobia di Mario Balassi, Susanna e i vecchioni di Agostino Melissi, Lot e le figlie di Simone Pignoni.
Una menzione particolare meritano le due tavole di Cristofano Allori (che l’odierno restauro ha meritoriamente riportato alla vita, arrestando i danni subiti nell’alluvione del 1966), raffiguranti San Benedetto e San Giuliano: esse erano in origine unite a formare la grande pala che schermava le reliquie collocate nell’enorme altare-reliquario della Compagnia e che, grazie ad un meccanismo di corte, poteva essere scenograficamente alzata per la loro ostensione.
La mostra, come il catalogo edito da Sillabe, è a cura di Alessandro Grassi, Michel Scipioni, Giovanni Serafini, ed è promossa dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo con il Segretariato regionale del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del turismo della Toscana, la Ex Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze, la Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le Province di Firenze, Pistoia e Prato, il Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, e Firenze Musei.