Feliscatus – Sette vite
Sette vite, Come le comete. “Dipinti, ora in esposizione, che hanno per elementi principali un tratto di mare e delle viti in esso conficcate”.
Comunicato stampa
Può darsi che non sia lo studio analitico e retrospettivo dell’insieme la strada giusta per arrivare a capire le relazioni numeriche e cromatiche di questo gruppo, neanche tanto elevato, si può dire esiguo, di dipinti, sette per la precisione, pure di dimensioni piuttosto contenute, la cui palese somiglianza, tra essi esistente, potrebbe portare un occhio sbrigativo a una ripetuta unità. Dipinti, ora in esposizione, che hanno per elementi principali un tratto di mare e delle viti in esso conficcate. Comunque sia, quest’analisi non costa nulla cominciare a farla, verificando così se da qualche parte conduce.
Per prima cosa bisogna cercare di capire se una vite di metallo è in grado di galleggiare nell’acqua; questo prima di tutto, e poi procedere. Nella realtà certamente no: un oggetto di metallo che non abbia del vuoto all’interno non galleggia, e non esistono magia, proprietà paranormali o ascesi che possano permetterlo, dare la convinzione che ciò possa avvenire, corrispondere a una qualche verità, seppure non probabile, credibile e possibile; esistono leggi fisiche e matematiche che invece possono smascherare e rendere nulle credenze fasulle e imposture.
Però nell’arte sì, tutto è possibile. Sicuramente, in special modo, in pittura, dove ogni immagine sta sospesa, a volte in bilico con una notevole dose di instabilità, tra due spessori: il pensiero creativo, materialmente inconsistente, e lo spessore del corpo della pittura, quasi; ancor meno “di spessore”, quest’ultimo, quando lo strato pittorico più che di pasta di colore è fatto di liquide velature trasparenti.
Sono sette le viti primarie, una per ogni gruppo (e sette le vite di gatti che furono), chiamate in causa. Ognuna di esse ha un colore diverso da un dipinto all’altro, ogni colore, appunto per questa differenza, con una lunghezza d’onda sua propria.
La numerazione dei gruppi, indicativa anche del dipinto, inerente cioè al posto che questo nell’insieme occupa, non corrisponde alla normale successione numerica da uno a sette, bensì ad una personale, non casuale ma calcolata scelta di posizione dei gruppi e dell’ordine degli elementi che compongono ognuno di essi, una scelta doppia e concorde, felina e d’artista.
Sono sette dipinti su tele di piccole dimensioni ricavate da una tela più grande su cui negli anni novanta avevo abbozzato, con poca convinzione e poca voglia, una composizione di frutti e drappi. I quadri sono appunto sette, realizzati nel 2002, tutti più o meno della stessa misura.
In ogni dipinto ci sono sette viti, ognuna delle viti ha sulla testa un teschio felino ed è avvitata, per un terzo circa, nell’acqua del mare. Ogni tela è divisa in due spazi principali; il colore è grigio nella zona superiore, grigio-azzurro in quella inferiore, ceruleo nella striscia visibile della superficie dell’acqua che separa lo spazio che sta sopra da quello che sta sott’acqua.
Sette viti per ogni quadro per sette quadri: quarantanove (questo numero non simboleggia alcunché) viti e altrettanti crani felini. Ciascun quadro ha una vite il cui colore la mette in evidenza rispetto alle rimanenti sei monocromatiche bruno Van Dyck o terra d’ombra, il teschio, essendo d’osso, è più chiaro. Il colore e la posizione della vite che si differenzia dalle altre cambiano di dipinto in dipinto.
Il primo quadro si chiama Sette vite VII e la vite colorata d’indaco occupa la posizione terza, a partire da sinistra, nella fila di tutte e sette. Il secondo si chiama Sette vite V, la vite colorata di arancio è la seconda. Nel terzo dipinto, Sette vite I, al sesto posto c’è la vite rossa.
Il nome della quarta tela è Sette vite VI, in questa, la vite blu è la quinta.
È la volta della quarta vite (nella sequenza virtuale di quelle colorate), è verde e si trova nel quinto dipinto che si chiama Sette vite II.
Il sesto quadro è Sette vite IV, qui il colore della vite che si trova nella settima e ultima posizione è viola.
Infine, è la volta del colore giallo, che occupa, con la sua vite, la posizione numero uno nel settimo dipinto dal titolo Sette vite III.
Usai la tavolozza, per la prima e ultima volta, nel 1969 o nel ’70, in occasione di una mostra estemporanea. L’avevo acquistata, insieme a una cassetta di legno per colori, pochi giorni prima.
L’immagine dell’artista pittore con la tavolozza nella mano sinistra (per chi non è mancino), magari ironicamente esagerata, caricaturata, con baschetto, fiocco, camice, capelli lunghi, baffi all’insù e pizzetto, l’ho sempre trovata oleografica, ingombrante, poco funzionale e insincera, presuntuosa e petulante. Più comoda e utile, per un pittore, una comune faccia da impiegato o ragioniere. Il vantaggio che l’essere uguale a tanti altri dà (nell’anonimato di fisionomia e nome, perché questi molto diffusi o sconosciuti) è quello di passare inosservati; non essere obbligati, inoltre, dalla paura di perderli – non si può perdere ciò che non si ha – a evitare scelte, seppur credute giuste, che potrebbero mettere a repentaglio il piacere dell’immediata riconoscibilità e un prestigio con fatica acquisito; una faccia qualunque aiuta a non spegnere la voglia di rischiare e di porsi continuamente in prima linea; perché il lavoro lo si fa innanzitutto per se stessi.
La pittura, l’atto di dipingere è ben altro che lo sfoggio di una postura carnascialesca comicamente agghindata.
Quindi, dopo quel giorno, contrassegnato anche da quei tristi alloggiamenti in spazi da rispettare, di faggio, alcuni dei quali ricoperti di zinco che sembravano delle piccole casse da morto, dove inserire, sistemandoli con un ordine prestabilito, colori, medium, pennelli, stracci, gomma pane, grafite, decisi di non usare più né la tavolozza né alcuna cassetta. Assai meglio, più pratica e più vicina alla pittura, come contenitore, una scatola di scarpe che odorava di cuoio e lucido, l’olezzo di quest’ultimo, poi, mi faceva pensare a quegli astucci bassi e circolari, dentro i quali veniva venduto e che si aprivano girando il fiocco di metallo, a volte dorato – alcune scatolette ne avevano addirittura due – inondando, dopo aver sollevato il coperchio, l’aria nelle vicinanze di un intenso odore di trementina e sommacco, con la certezza, data dalla vista fattasi famelica di quell’aspetto agli occhi appetitoso, che quella pasta cremosa e unta tingeva fortemente, oltre a smuovere gli umori della bocca, come non mancava di fare la presenza e l’odore di un limone sbucciato grattandolo, in vicinanza della campagna, nel bianco arricciato di un muro di recinzione. In tal modo si presentavano l’odore aspro della libertà conquistata, l’incipit umorale della pittura, la gialla e calcarea commestibilità di graffiti ante litteram.
Per metterci i colori poteva risultare appropriato anche un semplice sacchetto di plastica, meglio se trasparente, e per mescolarli un pezzo di truciolato rivestito di formica, perciò non assorbente – tolto da qualche cucina all’americana dismessa o altro mobile – dove disporli a caso, non come nelle tavolozze stampate in bella vista nei libri tutt’attorno a mo’ di aureola che dava ai colori il loco status santificatore della tradizione. Anche la sola formica andava bene; allora, quand’ero giovane, questa era comune, veniva usata a copertura dei mobili, oggi cosiddetti di modernariato.
Informale tavolozza, dunque, non a forma stereotipata di tavolozza (della quale mi occupai con un ciclo di dipinti nel 1991), e da tenere non in mano, bensì su un piano, tavolo da lavoro che fosse, seggia o sgabelli bassi e lunghi di legno vecchio e grigio, con i laterali tagliati internamente a triangolo (residui del negozio di alimentari – ma dove poi si vendeva un po’ di tutto – che i miei genitori, per molti anni, avevano avuto), su cui i primi rudimentali cavalletti da me costruiti poggiavano. Ancora più adatto, per impastare e mesticare i colori, un piatto vecchio, piano più che fondo (dipinsi dei “pranzi d’artista” con piatti di tubi spremuti, nell’87) e non decorato; ma la cosa che prediligevo era una normalissima piastrella, purché abbastanza liscia, possibilmente semiopaca e bianca; alcune di queste piastrelle, fedeli amiche di tante avventure creative, mi accompagnarono per tutti gli anni ottanta. Ce n’era una con la finitura tipo carta fotografica mille punti – quindi non perfettamente liscia – davvero superba, sulla quale si depositarono man mano le tracce del periodo di maggior pienezza pittorica. Ho ricordi precisi, netti, legati a piastrelle come se si trattasse di quadri, e in un certo qual modo lo erano: i miei quadri di storie e fatti accaduti, materici e astratti. Lungo uno dei lati di questi sonori, tinnuli, bianchi e smussati, a volte anche lucidi e come l’acqua riflettenti quadrati o rettangoli, si assommava quel che rimaneva degli innumerevoli grigi-azzurri (soprattutto, ma anche di altri colori) che usavo per dipingere sovrapposizioni e trasparenze; il quadro più complesso a questo riguardo, e uno di quelli che mi richiese più tempo, fu “Il gioco della cultura e delle sue ombre”. La pellicola di colore a olio che si essiccava tutt’attorno a quei bignè d’impasti di varia grandezza, secondo la quantità dell’allora aromatica crema che mi rimaneva, e solcati dal ludico e basculante andamento della spatola con la quale ne modellavo la forma, muovendola quasi a passo di danza sopra il corpo oleoso, faceva sì che l’interno non si indurisse, se non dopo parecchio tempo, come se fosse rimasto dentro il tubo, o quasi. Invecchiando, poi, diventava per certi lavori più adatto, perché il colore internamente un po’ si asciugava, e quando, dopo aver prima inciso con la punta della spatola lo strato corneo esterno e, sempre con lo stesso attrezzo, prelevato la quantità occorrente, cominciavo a utilizzarlo col pennello, lo trovavo più viscoso di quand’era appena preparato e, applicandolo sul lavoro che avevo per le mani, si formava una patina oleosa e lucida che dava profondità alla stesura, molto adatta a certi scopi.
Ora non uso più alcun supporto d’impasto, per la verità da tanti anni ormai faccio così, di norma metto il colore direttamente nel corpo del dipinto su cui sto lavorando, sia esso di tela, tavola, cartone, pluriball o altro, e lo mescolo lì; se proprio me ne serve una, ossia un’informale tavolozza nell’aspetto e nell’uso, il primo oggetto che ho sottomano va bene, anche un giornale o una rivista.
Per asciugare i pennelli adoperavo dei pezzi di tessuto, più che altro cotone, a casa mia ce n’erano in quantità. Ma con l’andare avanti negli anni, quando la pittura si fece più particolareggiata, camminando di pari passo alla riduzione della dimensione dei pennelli, soprattutto tondi, e al loro progressivo scalare di numero identificativo fino a quelli di martora 00 (oggi uso i sintetici, la resa è pressappoco uguale e costano meno), il tessuto di per sé, o l’indurimento delle zone di questo impregnate di colore che si era asciugato, non trattavano col giusto tatto, con la necessaria morbidezza, i peli dei pennelli più fini e minuti, grattandoli e scombinandoli; così, per asciugarli e pulirli cominciai a usare la carta, i rotoli da cucina, lo scottex che da marchio è diventato nome generico; anche i fazzoletti, sempre di carta, che erano ancora più morbidi e asciugavano né tanto né troppo poco. Tenendoli piegati tra indice e pollice della mano sinistra, prima di diventare inutilizzabili per le numerose tracce dei colori, acquistavano delle forme interessanti con pieghe imprevedibili di volta in volta differenti, date anche dall’incollatura delle parti attraversate dai pigmenti con più o meno medium. Forme che cominciai a guardare con attenzione e pensare di studiare per riproporle in veri e propri dipinti, dove, su iceberg freddi, ai quali questi pezzi di carta con i loro piani e picchi cominciai ad associare, il pennello impregnato di colore, strisciando in mezzo a quella piegatura stretta tra le dita, lasciava tracce speculari simili a comete con la loro coda di frammenti.
In quell’anno, il 2002, avevo già dipinto le trentadue tele della Torre di Babele.
La divisione dello spazio in cielo per due terzi e per un terzo mare, che sezionato, quest’ultimo, da un piano virtuale parallelo al dipinto, lasciava intravedere la parte subacquea, verso il fondo sempre più velata di scuro per la progressiva riduzione della propagazione della luce – ripartito, lo spazio pittorico nella sua interezza, in accordi cromatici che mi sembravano ben amministrati: il grigio aereo, la sottile striscia azzurra della superficie del mare un po’ striata di bianco e il grigio-blu della zona sottostante –, tale divisione degli spazi del dipinto, dicevo, la trovavo abbastanza indicata per il nuovo ciclo che avevo in mente; d’altra parte questa impostazione mi era tornata utile sperimentandola poco tempo prima, in un formato inedito, per Sette vite, dove avevo tenuto come cielo lo strato pittorico di cancellazione a copertura dell’abbozzo di un dipinto di frutti e drappi, iniziato qualche anno prima su una tela di 57x67 centimetri, che poi, tagliandola, ridussi in tele più piccole, tre delle quali di 12x21 centimetri, tre di 11,5x21 e una di 11x21; altre di varie misure le utilizzai in seguito.
In merito ai dipinti di Sette vite, mi accorsi che la struttura compositiva che per la seconda volta utilizzavo, anche se – nella scala in discesa di un’invenzione già collaudata – sviluppata in un formato orizzontale (di cui si dice, e forse è anche vero, mah! dipende, non sempre è così, che distenda lo sguardo e ponga in stasi la mente), traversando i segni di grosse pennellate in parte sciolte nell’acqua e in parte da essa coperte, dava, con mia sorpresa, ai sette dipinti che si apprestavano a nascere, una particolare, tiepida, blanda, divaricata inquietudine. Questa, maggiormente, sottilmente, s’insinuava in quel mare senza moto, per la presenza nelle tele di viti galleggianti con in cima crani felini mancanti della mandibola, nell’apparente giocosità di un unico colore pastello (uno per una sola vite di ogni dipinto e diverso da un dipinto all’altro), però, e ciò lo vedevo in profondità davvero non misurabile, con proprietà di contagio.
Quanto detto all’inizio non stona riprenderlo, perché è lì che sta la differenza tra realtà e menzogna, verità pittorica e semplice, immateriale fantasia. Abbiniamo la vite, solitamente, alla materia ferrosa piena, e per questo motivo non riusciamo a immaginarla che galleggi (sia pure in parte) e non affondi, come invece sarebbe logico che avvenisse; si sa, altresì, che non è possibile avvitarla in una sostanza liquida. Nei dipinti ora in esposizione, invece, le viti sono immerse nell’acqua per un terzo, sembra dopo un parziale avvitamento che le tiene bloccate, perché per il resto della lunghezza s’innalzano dritte dalla superficie marina.
Ritornando a “Come le comete”, mi avventurai, pertanto, nel minuscolo e in lontane orbite spaziali; lavorando su lievi percorsi spuntati per caso da una normale prassi pittorica e su quanto, della manualità di routine che li metteva in gioco, un giorno dopo l’altro rimaneva, come già da tanti anni avveniva, quale pigmentato residuo destinato, ormai inadeguato all’uso, alla distruzione: gli avanzi, disponibili per la nuova guarnigione creativa che stava venendo fuori, di una pittura ormai consolidata in un habitat di sentimenti che ne svezzavano il futuro, incoraggiando e poi assicurando una continua, indipendente evoluzione.
Dal canto loro, i mucchi variopinti di asciugapennelli, prima resti poi scarti, dopo essere stati soltanto ricovero di soverchia materia in cumuli di policrome fughe, chiamati dal buonumore temporaneo che sfiatava in accenni di solitari sorrisi, luoghi di fitta, stratificata, casuale astrazione, diventarono, e finalmente, con gli algidi e oblunghi nuovi quadri, colore a olio rosso fuoco su permeabili iceberg dipinti su tela, con proporzioni inosservanti della regola “un decimo su e nove decimi giù” perché di carta. Ma, come le comete, di ghiaccio in viaggio, marchiato in rilievo da una capocchia, con annessa scia, di sangue rappreso; sì, ogni dipinto era proprio come una cometa, che dava nome e ragione al moto curvilineo da carta a tela di una rutilante, disgregata, lenticolare e frusciante forma. Quando essa sarà domestica e ridotta all’osso: una patata congelata rossa, di un rosso che non è più, all’olio di lino, in un fazzoletto di amletica e disarmata terra bianca.
Feliscatus