Salvo – Il migliore
Una volta Salvo ha detto che «ciò che sta tra un imbiancare un muro e fare la Gioconda si può chiamare pittura».
Comunicato stampa
Una volta Salvo ha detto che «ciò che sta tra un imbiancare un muro e fare la Gioconda si può chiamare pittura». Se a lungo andare le pareti rischiano di scrostarsi, i quadri di Salvo non sono fatti di banale calce e tempera muraria, al contrario: sono come pietra dura, im-perturbabile, solida e solenne. Non è un caso che nel trattato Della pittura – Imitazione di Wittgenstein, scritto dall’artista nel 1989, ricorra più e più volte il riferimento alla durezza delle pietre, che il pubblico aveva imparato a riconoscere nelle lastre di marmo da lui realizzate nei primi anni Settanta. La “letteratura epigrafica” incisa in quelle opere preannunciava una pacifica messa a morte dell’arte concettuale, quasi fossero delle pietre miliari che scandivano il ritorno alla pittura.
Tra critica e celebrazione, l’opera elegiaca di Salvo sentenziava con rara intelligenza sulla catatonia della fine del secolo, intuendo che l’iconoclastia sarebbe stata destinata al koimeterion, “luogo in cui si dorme”. Le sue lastre marmoree pos-sedevano inoltre il caustico orgoglio dell’[auto]ironia: Io sono il migliore, Amare me, Salvo è vivo/Salvo è morto, Respirare il padre, Più tempo in meno spazio, frasi che si opponevano all’apo-stasia degli anni Settanta, precorrendo viceversa il recupero dei pennelli e delle tele per ristabilire un rendez-vous con il passato, troppo a lungo negato (i suoi Autoritratti benedicenti, datati agli stessi anni, sono una prefigurazione di quest’in-tenzione di “trarre l’arte in Salvo”, per rispetto e riconoscenza nei confronti della tradizione).
Pur escludendo l’immagine, le lapidi di Salvo erano in grado di evocarla, impo-nendo una posterità che sarà appannag-gio esclusivo della figurazione; la parola veniva gradualmente meno (perdendo la sua preminenza), ma non per questo il contenuto scompariva o era meno loqua-ce, raggiungeva semmai l’agognata sintesi tra concetto ed esecuzione. «La frontiera di questa sinteticità – affermava l’artista – è che la rappresentazione resti leggibi-le». Rinunciando alla verbalizzazione, l’idioma di Salvo si era convertito in pittura, senza più la necessità di doversi raccontare; la lingua smetteva infatti di articolare le parole e iniziava ad assapo-rare l’impasto della pittura, soddisfacen-do la categoria dell’estetica che noi solita-mente chiamiamo “gusto”.
Lasciandosi alle spalle l’ambage concet-tuale, Salvo è stato tra gli artisti che per primi hanno ripreso a frequentare i musei per poter dialogare con il passato. È su queste premesse che il MAC di Lissone rende omaggio a un artista che ha sempre saputo infondere grazia e ingegno nel suo lavoro. Come i sassolini di Pollicino che lo riconducevano a casa, le Lapidi di Salvo ci permettono di risalire a ritroso nel tempo, nella storia e nell’arte, ritrovando le radici stesse dell’artista: i minareti, le moschee, le chiese e le cattedrali da lui dipinte nel corso degli anni sono infatti una logica prosecuzione delle lapidi qui esposte. Sono cioè luoghi della preghiera, della memoria e del silenzio su cui siamo invitati a vegliare da quando l’artista ci ha lasciati prematuramente.
Salvo. Leonforte, 1947 – Torino, 2015