Angelo Barone / Roberto Pupi – am-bi-vert

  • LATO

Informazioni Evento

Luogo
LATO
Piazza San Marco 13, Prato, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

dal lunedì al venerdì 10.00_13.00 | 15.00_19.00

Vernissage
19/12/2015
Biglietti

ingresso libero

Artisti
Angelo Barone, Roberto Pupi
Curatori
Tommaso Evangelista
Generi
arte contemporanea, doppia personale

Il progetto coinvolge due artisti, Barone e Pupi, che ricercano su un’idea trasversale di spazio, inteso come luogo di interrelazione tra forme e volumi, e lavorano sul sincronismo/asincronismo della costruzione cercando di rapportarsi con le informazioni ottenute dagli oggetti.

Comunicato stampa

Angelo Barone | Roberto Pupi
Dinamiche spaziali e oscillazioni della forma
a cura di Tommaso Evangelista

Il termine inglese ambivert è una parola particolarmente suggestiva ed evocativa nel richiamare il principio per cui una persona dimostra al tempo stesso un atteggiamento introverso ed estroverso. E’ un termine, anche solo per associazione spontanea, ambiguo e che tende a visualizzare un confronto-scontro ovvero una visione complessa e stratificata. In tale contesto espositivo non può che richiamare l’ambivalenza della forma attuale, per dinamiche relazionali e “politiche” maggiormente incline alla liquidità che alla concretezza, e il lavoro opposto e speculare sulla struttura dell’architettura (artificiale o naturale), verso la ricerca di un equilibrio instabile.

Il progetto coinvolge due artisti, Barone e Pupi, che ricercano su un'idea trasversale di spazio, inteso come luogo di interrelazione tra forme e volumi, e lavorano sul sincronismo/asincronismo della costruzione cercando di rapportarsi con le informazioni ottenute dagli oggetti. Tale capacità di misurarsi con i cambiamenti degli spazi, avvertibili nelle trasparenze e nelle fluttuazioni delle informazioni, permette loro di modificare la visione e gestire liberamente le regole strutturali cercando quasi un’etica delle forme. Nel superamento dei vincoli geometrici e spaziali, verso un’analisi di carattere quasi temporale, emerge in entrambi una capacità di gestire l’estensione del concetto di presenza-abitabilità e una riprogrammazione dello schermo mobile della rappresentazione, con l’irrompere di dispositivi semantici trasversali, ambivert appunto. Tale mostra quindi, nelle singole ricerche, lavora sulla gestione delle informazioni (strutturali, architettoniche, anatomiche) e su divergenti sistemi di manifestazione/modulazione.

Il lavoro di Roberto Pupi principia dai dettagli, ricreando livelli di struttura e di forma che si proiettano nello spazio. Per ogni area di interesse l’artista ricava una modulazione, un’estroflessione all’interno dell’immagine che da classica finestra albertiana collassa in un’iper-rappresentazione analogica. L’elemento naturale è analizzato in una visione fatta per aree e schemi di organizzazione basati su impressioni ottiche e su una particolare capacità di costruire percorsi nell’immagine fotografica, percorsi che a loro volta attivano processi di dinamizzazione delle forme. L’assenza di staticità porta ad una rottura dei livelli e ad una coscienza maggiore dell’elemento fotografato che viene ad essere percepito, come un solido, da prospettive diverse. Il lavoro sulle anamorfosi, quasi un richiamo alla forma archetipica degli ex-voto, lontano da un’ermeneutica del corpo, modifica invece il processo votivo attraverso la semplificazione delle strutture verso tentativi diversi, meno sacrali, di percezione. Pupi, comunque, cerca di comprendere sempre come viene ad inquadrarsi il fenomeno all’interno dello spazio e lo fa celando le regole. Le opere sviluppano una comunicazione alternativa mentre il processo di modulazione delle immagini, partendo dalla complessità del reale, cerca di ricreare in piccolo una configurazione che diventi organismo e filtro. E’ un filtro che, in fondo, polverizza la visione, o la plasma in ogni direzione, e che par assumere i principi del cubismo geometrico picassiano. Ciò non vuol dire che la nostra visione è frammentata, ma potrebbe esserlo in assenza di strutture culturali forti, bensì che la forma, fotografica in tal caso, gestisce dei processi spaziali indipendenti dal fruitore, processi che emergono come ambienti virtuali. E’ l’artista a condurre la comunicazione dell’immagine, ovvero la possibilità di monitorare il reale attraverso mappe individualizzate che tendono ad un’espansione dello spazio interno, all’amplificazione della forma e alla creazione di una materia visiva magmatica.

Angelo Barone, invece, lavora per ricercare un ambiente pervasivo, indagando le tracce minimali dell’architettura e individuando il bunker come archetipo costruttivo, modello sommo di organizzazione spaziale e prospettica. La sua è una visione in trasparenza che fa del tempo una forma che sparisce o attende, e crea monoliti virtuali che attendono invisibili nemici come in un apocalittico e silenzioso deserto dei Tartari. In questo caso è la struttura che cerca di gestire la conoscenza delle forme mentre l’eccessiva compenetrazione del corpo nello spazio è risolta nel tentativo di sparizione dell’oggetto. Un oggetto nel quale sono le informazioni di base che fanno rete consentendo all’opera di accumulare nuovi dati e di crescere in termini di comunicazione complessiva. Emerge, silenziosa e celata, la vita propria ed enigmatica dei volumi, lo sforzo di modulazione, il tentativo di concentrare ombra e assenza per sviluppare livelli funzionali di senso. Nella possibilità di individuazione di tecnologie minime, invisibili, si percepisce anche la possibilità dello scontro e l’estensione del contrasto tra forma chiusa, stratificata e monolitica, e un’immateriale sacralità architettonica. La perdita e la sparizione dell’identità diventano allora il pretesto per una ricerca sul vuoto, sull’iperspazio, sulla privazione del corpo, sull’assunzione delle casematte quali potenti metafore del senso, dell’impenetrabilità dell’anima e della necessità di un baluardo. Partendo dal viaggio materiale di Paul Virilio alla ricerca delle infrastrutture difensive del secondo conflitto mondiale, Barone analizza, tra sculture e fotografie, velocità e potere, la contaminazione dei modelli e il superamento della barriera dei punti di vista. Annullando la storicità dell’occhio non fa che estrapolare forme significanti e assolute portandole verso il collasso del senso e della funzione, per l’emersione di una presenza liquida e collettiva, arrivando, così facendo, alla creazione di un non-luogo dal quale emergono unicamente quattro fondamentali proprietà: complessità, conformità, trasformabilità e invisibilità. E proprio sul limite dell’invisibilità si collocano le sue opere, trafitte da punti di vista e da filtri, ma capaci, proprio per la loro caratteristica di svestire i panni dell’architettura e assumere quelli del corpo-oggetto, di trasmettere un’inquietante funzione difensiva.