Gabriele Basilico / Hema Upadhyay
Due importanti mostre apriranno la stagione primaverile: una personale di Gabriele Basilico dal titolo “Iran, 1970. Basilico prima di Basilico”, a cura di Giovanna Calvenzi e Where the bees suck, there suck I, un omaggio all’artista indiana Hema Upadhyay recentemente scomparsa.
Comunicato stampa
Iran 1970
Basilico prima di Basilico
a cura di Giovanna Calvenzi
Inaugurazione sabato 5 marzo 2016, ore 11:30
dal martedì al sabato, 9:00-13:00 e 15:00-19:00 | fino al 7 maggio 2016
Nato a Milano nel 1944, si laurea in architettura nel 1973 e da quel momento si dedica con continuità alla fotografia. La forma e l’identità delle città, lo sviluppo delle metropoli, i mutamenti in atto nel paesaggio postindustriale sono da sempre i suoi ambiti di ricerca privilegiati. Considerato uno dei maestri della fotografia contemporanea, ha ricevuto molti premi e le sue opere fanno parte di importanti collezioni pubbliche e private italiane e internazionali. Nell’estate del 1970, quando ancora non ha deciso quale direzione avrebbe preso la sua vita, Gabriele Basilico intraprende un lungo viaggio in auto dall’Italia all’Iran con un gruppo di amici. Ha con sé due macchine fotografiche e ha intenzione di realizzare
un reportage di viaggio con la speranza poi di poterlo vendere a qualche giornale. I suoi modelli di riferimento visivo sono i grandi fotografi dell’agenzia Magnum e la tradizione del fotogiornalismo. Pur nella distanza che le immagini dell’Iran manifestano rispetto allo stile che diventerà suo negli anni seguenti, con queste immagini Basilico dichiara implicitamente il fascino che le geometrie del costruito hanno già su di lui. La vita nelle città e lo spazio architettonico si alternano nella sua indagine e “Iran 1970” rimane, come scrive Luca Doninelli, un saggio importante di “Basilico-prima-di-Basilico”.
Omaggio a Hema Upadhyay
Where the bees suck, there suck I
Hema, la principessa indiana - Michele Alberto Sereni
Inaugurazione sabato 5 marzo 2016, ore 11:30
dal martedì al sabato, 9:00-13:00 e 15:00-19:00 | fino al 7 maggio 2016
Pensare ora che la vita di Hema Upadhyay (Vadodara, India, 1972) è stata brutalmente spezzata a Mumbai in un delitto dal movente a oggi oscuro dà un dolore difficile da comprendere, perché oltre alla singola persona, alla singola esistenza, è come se qualcuno non avesse esitato a rovinare e distruggere il talento umano, di cui l’artista è uno dei rappresentanti più alti. Perché Hema, tra gli artisti indiani della generazioni più giovani – aveva di poco superato la quarantina – di talento ne aveva tanto, e lo ha dimostrato nella maniera a nostro avviso più evidente, attraverso opere di grande semplicità ed efficacia.
[...] Where the Bees Suck, There Suck I, 2008, è un’immagine semplice, ma toccante, perché riesce a centrare il problema, fornendo in un sol colpo un’infinità di significati stratificati e tutti compresenti, come ad esempio la sovrappopolazione, l’inurbamento, il pericolo politico ed economico che sovrasta i più deboli, la paura del futuro, il domani dell’umanità…tutto in uno sguardo, che riesce così a comporre l’emozione e la riflessione. Questa realtà compositiva, e soprattutto la capacità di sintetizzare un sentimento complesso in una forma semplice e “popolare” erano le caratteristiche più peculiari di Hema, e sono rimaste in tutte le sue opere, anche nelle
più recenti (pensate dal 2012 ad oggi, anche per la mostra prevista a museo di Boston proprio nei primi mesi del 2016), sempre incentrate sul tema della “libertà”. Così, seguendo il detto della saggezza popolare per cui gli uccelli nel loro volo non conoscono confini e sono quindi il simbolo della libertà, aveva iniziato a costruire centinaia di uccelli di gesso coloratissimi, alcuni previsti per volare appesi a un filo, altri – la maggior parte – posati su mensole, con una strisciolina di carta stampata nel becco, il frammento di una storia, di una narrazione dalla ricomposizione impossibile, ma piena di pathos per il solo fatto di essere virtualmente dispersa nel mondo. Anche uno solo di questi uccelli avrebbe così significato il “tutto”, perché avrebbe presupposto tutti gli altri, un intero stormo che trasporta le parole, cioè le idee, e poco importa che non si comprenda di quale narrazione si tratta, perché ciò che è davvero importante è che le parole vengano trasportate dappertutto: anche volendo, non si possono infatti fermare “tutti” gli uccelli. Hema oggi è stata fermata (che tragico e insopportabile spreco!), ma le sue parole continuano a volare.
Marco Meneguzzo, Artforum - febbraio 2016