Natino Chirico – Mitologie di un eterno presente
Un viaggio retrospettivo per narrarvi la visione di Natino Chirico, le sue mitologie contemporanee, i suoi universi che si trasformano in calibrate alchimie pittoriche.
Comunicato stampa
Un viaggio retrospettivo per narrarvi la visione di Natino Chirico, le sue mitologie contemporanee, i suoi universi che si trasformano in calibrate alchimie pittoriche. Nato a Reggio Calabria nel 1953, trasferitosi a Roma nel 1975, l’artista si divide da alcuni lustri tra la Capitale e l’Umbria, terra d’elezione in cui ha costruito la casa del benessere spirituale, il luogo della fuga senza fughe, lo spazio del viaggio interiore. Molti lavori di questa retrospettiva hanno preso forma nello studio umbro, dove la luce assume un valore meditativo, dove i vuoti diventano pieni, dove il colore connette la retina alle ragioni del paesaggio.
La mostra per Palazzo Collicola Arti Visive parte con le opere nate tra la metà degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Sono quadri che indicano una prima strategia teorica: abbassamento della temperatura cromatica, frammentazione della figura, precisione iperrealista. Chirico escludeva qui la città e vincolava l’occhio agli strumenti domestici del fare pittura, al cavalletto e ai tubetti, all’autoritrarsi per dettagli. Una scelta di sottrazione progressiva in cui l’artista entrava nel bianco metafisico, ripartendo da una grafite che azzerava il simbolismo cromatico, in sintonia storica con gli andamenti più concettuali della pittura.
La svolta verso il colore arrivò poco dopo, diciamo nella seconda metà degli anni Ottanta. Ancora permaneva un clima rarefatto e rigoroso, una scia metodica che chiedeva il massimo alla tecnica in funzione del contenuto; di contro, la figura si apriva agli echi di un paesaggio avvolgente, fatto di colori vividi e astratti. Si capiva bene dove stava andando l’artista: poneva le basi di una strategia riduzionista che, nei successivi anni Novanta, isolerà il soggetto per ricomporlo su fondali piani alla Tano Festa, dentro monocromie mineralizzate, quasi vive nella loro vibrazione epidermica.
Chirico ha deciso, a un certo punto, che l’indagine tautologica attorno al soggetto/artista era terminata. Anche il paesaggio non gli bastava più, la Natura era servita per rigenerarsi e scrutare la città con occhi e modi diversi, più consapevoli e delineati, per non lasciarsi travolgere dal clamore mediatico. Da un certo momento l’autore ha intrapreso il suo close-up sulle mitologie del presente, sui lampi che illuminano l’immaginario collettivo, come tanti soli che scaldano paesaggi sentimentali e vertigini emotive.
Federico Fellini e Charlie Chaplin sono le polarità figurative da cui l’artista sta traendo maggior ispirazione. Le loro fisicità fondono persona e personaggio in un respiro iconico, profondo e vibrante. Nascono dal puro colore, da schegge, grumi o scie gocciolanti che stillano energia sui fondali astratti. Impossibile non riconoscerli, difficile non innamorarsi del loro gesto affabile, della postura mitica, del dettaglio che rivela il genio. Al contempo, l’artista ne interpreta il valore simbolico, la capacità di generare pathos attraverso evocazioni e inconsueti slittamenti. Per il nostro artista quei corpi sono un’offerta poetica e sentimentale, un avanzamento verso l’universale della pittura. Si modificano in puro organismo pittorico, sagome del desiderio che solo l’artista trasforma senza stravolgimento. Respirano e si ricompongono, si sfaldano e compattano nel prisma inventivo della storia artistica, lungo l’orizzonte mitico che oggi celebra il sacro mediatico al posto di santi e aristocratici, nobili e condottieri.
Michelangelo Antonioni, Pier Paolo Pasolini, Luchino Visconti, Anna Magnani, Totò, Eduardo, Roberto Benigni, Monica Vitti… loro e altri per una selezione metodica dentro la scala dei miti popolari, tra icone di un sogno che cresce nel tempo, oltre le vite biologiche e la durata meccanica di un film. Sono loro le mitologie di un eterno presente in cui riconoscere il debito con Andy Warhol, il primo che intuì il valore artistico della comunicazione, destinando la cultura pop ai piani alti delle cose resistenti. La composizione chirichiana interpreta, attraverso impasti e gamme cromatiche, il volume energetico del singolo personaggio, captando moltissimo con pochissimo, trasferendo un valore sentimentale attraverso l’azione catartica del colore. L’azione pittorica ha un felice dinamismo motorio, la figura non appartiene più all’immaginario fotografico ma incarna una nuova durata, un altro tempo che è quello interno della pittura.
Una cosa emerge lungo la produzione di Natino Chirico: l’attrazione del soggetto pittorico per lo spazio tridimensionale, una febbre plastica che calamita la pittura verso l’ambiente attorno al quadro. L’artista espande così l’approccio su altri volumi: cubi, strutture in plexiglas, sculture trasparenti, rilievi sagomati, diverse soluzioni per una medesima visione identitaria. Fin dagli autoritratti si sentiva la spinta del soggetto verso l’esterno, la pressione della tela quale soglia da varcare: la superficie piana come un limite congenito che il colore e le evocazioni figurative potevano rompere. Se ci pensate bene, anche il suo quadro assorbe il muro, il pavimento e il contesto come complementi in rilievo. E li amalgama in una geografia narrativa dove il fondale diviene palcoscenico mobile del protagonista.
Il futuro per Natino Chirico? Si connette alle traiettorie già aperte, usando il passo veggente della declinazione tematica, aprendosi ad una figurazione oltre le umane mitologie, allargando le ottiche dello sguardo conoscitivo. Entrano in scena animali di stazza iconica, come un rinoceronte o un tacchino, e calamitano l’energia sul loro protagonismo naturale, sulla ieratica potenza da fermi, a conferma di un viaggio pittorico negli archetipi universali, dove anche l’animale richiama simboli, incarna desideri, evoca storie e mitologie. L’altra traiettoria si allunga oltre il close-up e definisce nuove tracce urbane, echi di profili metropolitani, vibrazioni di uno skyline interiore. Se ripensiamo ai paesaggi incontaminati e alle visioni archeologiche, non stupisce la comparsa di un vedutismo a campo lungo, evocativo per struttura pittorica, quasi digitale nei suoi codici linguistici. L’artista non poteva che giungere fin qui, alla città del nuovo millennio, ai suoi archetipi tecnologici, alle sue relazioni pericolose. La metropoli incarna la nostra civiltà e metabolizza le mitologie dell’eterno presente, prima masticandole, poi inserendole nel circuito sociale e culturale. I corpi del desiderio appartengono al sistema circolatorio metropolitano, integrandosi ai luoghi e ai modi urbani, aggiungendo le leggi del desiderio nel motore del consumo feticistico.