Can I step on it?
Mostra collettiva dal titolo CAN I STEP ON IT? Una delle domande più ricorrenti nei luoghi che espongono arte contemporanea, dove il visitatore spesso si chiede che rapporto può intrattenere con l’opera esposta: se può interagire (magari camminandoci sopra) o se deve tenersi ad una certa distanza.
Comunicato stampa
‘Can I Step On It?’ consiste in una serrata selezione di opere di artisti appartenenti a generazioni diverse, una serie di lavori che fanno riferimento all’orizzontalità, a come fisicamente, narrativamente e dimensionalmente essi occupano quella porzione dello spazio, rappresentando un’opportunità di rendere manifesta l’idea di scultura appiattita, che a volte richiede che i visitatori vi camminino sopra, mentre in altri casi quella stessa possibilità viene simultaneamente suggerita e negata, una serie di concetti concisamente espressi dal titolo della mostra.
Nata originariamente pensando al tappeto, all’attraversamento di tempi e culture che si possono immaginare pensando ad esso, spesso anche al delinearsi della metafora del viaggio tramite il ‘tappeto volante’ delle favole, la mostra si è arricchita di una visione più ampia, tendendo maggiormente a focalizzare sull’aspetto di come le sculture occupino il pavimento, offrendo un punto di vista variegato tramite i diversi approcci espressi dai lavori degli artisti scelti, una ventaglio di prospettive aperte dalle loro opere e dal dialogo tra di esse e che esse generano.
Dalla straordinaria potenza espressiva di una lunga sequenza di quadrati metallici di Carl Andre, alla capacità elusiva di Ian Wilson di giocare con l’apparire e lo sparire, tracciando ed insinuandosi in quella sottile linea tra il niente e qualcosa con il suo ‘Circle on the floor’ del 1968; concetti simili espressi anche da Henrik Olesen con il suo ‘Cable’, calco fedele di un cavo che si presenta come l’ideale e mimetico residuo di come le informazioni, e quindi il potere, si trasmettono oggigiorno; e ancora da ‘Plant Life’ di Jason Dodge, un lavoro che spinge alle estreme conseguenze la nozione di opera ‘in situ’, risultato della raccolta all’aperto di quanto rimane a terra della vita di fiori e piante in luoghi determinati, e presentato nella maniera più naturale possibile, come quando soffia il vento.
Il tappeto di Alighiero Boetti, parte della sua mostra a Le Magasin di Grenoble ‘De Bouche A Oreille’ del 1993, racconta della fascinazione di una vita per le culture dell’Est del mondo e del continuo scambio con esse, insieme alla partecipazione di altri nella realizzazione del suo lavoro. Un desiderio simile espresso anche dal lavoro di Aldo Mondino, il cui ‘Mekka Mokka’ taglia trasversalmente le culture tramite l’assonanza verbale, suggerendo riti religiosi e riti quotidiani, come il pregare e il bere e preparare il caffè. Il ‘Tapis de lecture’ di Dominique Gonzalez-Foerster invita ad un rito differente, suggerendo l’idea dell’aggregazione e dello scambio di pensiero e di cultura attraverso l’’educazione sentimentale’ proposta dall’artista e scambiata con il pubblico, invitato a leggere i libri selezionati dall’artista, seduti su un comodo e ampio tappeto di moquette.
La sequenza di tubi Innocenti arrugginiti dal tempo di Lara Favaretto, con l’eccezione di uno solo ricoperto da fili di lana di un blu intenso, dà la possibilità di riflettere sull’idea di astrazione in maniera anticonvenzionale, un lavoro che rompe la serialità del ‘sistema’ di tubi tramite i segni del tempo e l’apparire del colore, invitando allo stesso tempo a camminare sull’opera, ma a proprio rischio e pericolo, data la precarietà della superficie disposta a pavimento. Una qualità eterea di effimera provvisorietà e di qualcosa di familiarmente ordinato e nascosto è espresso da ‘Skin and Bones’ di Phillip Lai, vicino all’ideale lembo di terra desertica, o anche piccolo parco giochi per bambini, costellato da sigarette e monetine, il lavoro di Gabriel Kuri fa pensare alla superficie di un pianeta lontano, e si intitola con ironia ‘Donation Box’. In maniera sorprendente l’associazione di tre parole non correlate si materializza letteralmente nell’opera di Darren Bader ‘persian rug and/with tripod and/with sous chef’, due oggetti e un essere umano e la sua professione nominati e che appaiono nella realtà come fossero tratti da un brano letterario in cui le parole vengono però liberamente associate da chi guarda.
Parte della mostra è l’installazione di lungo termine ‘Procession. Process. Progress. Progression. Regression, recession. Recess, regress.’ di Mike Nelson, che ha luogo per diversi mesi nello spazio ‘In Residence’ della Galleria, e che, nelle parole dell’artista stesso, doveva apparire ‘quasi come i resti di un edificio di modernismo Kemalista’.
Un particolare ringraziamento a:
Luigi Lavazza S.p.a. per aver gentilmente permesso la realizzazione dell’opera Mekka Mokka di Aldo Mondino con l’utilizzo del loro caffè.
P. F. Cabib per aver gentilmente partecipato alla realizzazione di persian rug and/with tripod and/with sous chef di Darren Bader tramite uno dei loro tappeti.
La Signora Alessandra De Vecchi per aver consentito e partecipato alla realizzazione dell’opera Plant Life di Jason Dodge.