L’umano paesaggio e Il racconto naturale
Il volto umano e la sua rappresentazione, l’ambiguità del genere ritratto; la terra, i suoi rilievi, i suoi paesaggi, i suoi oceani, i suoi profili e le sue forme, tra natura e artificio, tra cartografie antiche e moderni skyline. Attorno a ciò ruota la mostra cardine della seconda edizione della Biennale. Disegno 2016.
Comunicato stampa
Profili del mondo
L’umano paesaggio da Giudo Reni a Kiki Smith
Il racconto naturale da Claude Lorrain a Giuseppe Penone
a cura di Alessandra Bigi Iotti, Marinella Paderni, Massimo Pulini, Giulio Zavatta
Museo della Città/FAR Fabbrica Arte Rimini, 23 aprile – 10 luglio 2016
L’umano paesaggio e Il racconto naturale.
Il volto umano e la sua rappresentazione, l’ambiguità del genere ritratto; la terra, i suoi rilievi, i suoi paesaggi, i suoi oceani, i suoi profili e le sue forme, tra natura e artificio, tra cartografie antiche e moderni skyline.
Attorno a ciò ruota la mostra cardine della seconda edizione della Biennale Disegno 2016. Protagonista il confronto e il dialogo tra opere antiche e opere moderne e contemporanee che trovano spazio nella Sala delle Teche al Museo della Città e nella centralissima FAR Fabbrica Arte Rimini. Si avvicendano disegni da collezioni pubbliche e private straniere e italiane di grande prestigio. Autori tra cui, Giovan Battista Tiepolo, Federico Barocci, Giovan Battista Piazzetta, Rosalba Carriera, Guercino, Guido Reni, Bartolomeo Passerotti in diretta connessione con opere di Lucio Fontana, Domenico Rambelli, Luigi Russolo, Umberto Boccioni, David Hockney.
Paesaggio con figure
Paesaggio è un termine che viene dal mondo e dalla pratica del disegno e della pittura, il dizionario etimologico lo fa risalire a Tiziano in persona e il Branca, nella Miscellanea, cita una sua frase che contiene per la prima volta questa parola. Gli artisti del Cinquecento usavano infatti il verbo paesare per intendere la creazione di un’immagine, pittorica o grafica, realistica o visionaria, che restituisce uno scorcio di territorio in cui appare un paese in lontananza. La stessa parola paese viene dal latino pagus: ‘villaggio’ (ma valido anche per ‘cippo di confine’), a sua volta derivato da pangere che significa ‘conficcare’. Quel che noi ora intendiamo come luogo di natura, come visione aperta sulle forme e le linee di un territorio, non è che il dialogo e la relazione che noi stessi abbiamo instaurato con un lembo di mondo, non disgiunto dunque da ciò che noi umani abbiamo conficcato in quella parte di terra. Non si intende, in questo limitato tavolo, trattare delle primogeniture storiche nel disegno di paesaggio, stabilire se il primato spetti a Leonardo o a qualche xilografo tedesco, se si debba risalire ai mosaici romani o alle fonti classiche, importa invece imbastire alcuni tracciati che hanno permesso l’attestarsi di un modus operandi, nel ritratto moderno del territorio.
La prima stagione pionieristica del disegno di paesaggio si espresse a Venezia nella prima metà del XVI secolo, si ispirò alle opere di Giorgione e Tiziano, venne sviluppata da Domenico Campagnola e da altri artisti della cerchia del Cadorino. Una penna affilata e un inchiostro di noce chiaro caratterizza quei fogli, compatti e definiti al pari di una incisione a bulino. Non a caso il Campagnola aveva origini germaniche e di influenza nordica sarà, il disegno di veduta, per tutto il periodo manierista. A Firenze Jan Van der Straet detto Stradano e Paul Brill a Roma, fecero parlare al paesaggio italiano una lingua fiamminga, esprimendo una pratica corsiva e modulare, fatta di stilemi dall’impianto scenografico, funzionali alla tecnica dell’affresco. Finirono per intonarsi ai nordici anche artisti italiani come Antonio Tempesta che, attraverso la calcografia, divulgò scene di caccia e di battaglie, ambientate in valli e boschi dall’impronta teatrale.
Fu tuttavia Annibale Carracci, in altri cantieri romani, a fissare il canone del paesaggio moderno, inserendo, nei declivi naturali e tra le chiome di alberi che si alternavano alle radure, la visione di un castello o il profilo di un borgo arroccato. Non mancava mai un corso d’acqua in quei disegni di primo Seicento e nemmeno la presenza vitale di figure operose; fossero barcaioli, pescatori o viandanti. Quei fogli, in cui le amenità naturali trovavano armonia con le costruzioni e i gesti dell’uomo, servirono da traccia alla nascita di un importante genere pittorico e decorativo. Figure come Adam Elsheimer, che nel campo della pittura e sullo stimolo delle aperture carraccesche, fecero del paesaggio qualcosa di filosofico, non hanno lasciato esempi grafici di eguale livello.
La nascita di un genere
Credo che, per vedere elevato il disegno di Paese ad un grado di autonomia assoluta bisogna attendere il Guercino. Nessuno degli innumerevoli fogli paesaggistici eseguiti a penna o a sanguigna da Giovan Francesco Barbieri, si è infatti dimostrato preparatorio ad un dipinto, ad un affresco o ad una incisione. Tutti sono nati come opere autonome, forse ebbero ragioni intime e mai vennero pensate per farne commercio, ma è certo che non furono relegate ad un ruolo strumentale o ancillare ad un’altra arte. Ci sono rapidi schizzi che fanno intuire una ripresa dal vero, sul posto, ma si hanno testimonianze scritte dell’abitudine che Guercino aveva di disegnare paesaggi di pura invenzione, anche mentre si trovava a conversare con qualche ospite, nel chiuso della propria casa.
Quei fogli dell’artista emiliano raccolsero una eccezionale fortuna e furono pure oggetto di imitazioni ripetute, al punto da venir presi a modello per il primo vero caso di falsificazione sistematica dello stile. Oltre infatti ai numerosi allievi che copiarono le opere del Barbieri e ne seguirono l’impronta espressiva anche nel campo della grafica, circa un secolo dopo la sua morte, un ancora sconosciuto falsario, iniziò a eseguire disegni di figura e di paesaggio con l’evidente intento di porli nel mercato come disegni autentici di Guercino. In epoca barocca furono alcuni francesi operanti a Roma, come Nicolas Pussin e Claude Lorrain, assieme a seguaci di Guercino come Pier Francesco Mola, ad aggiungere uno stile macchiato e atmosferico ai fogli di paesaggio. Mentre nel XVIII secolo fu di nuovo Venezia a fare del paesaggio disegnato e guazzato un laboratorio diffuso, che rinnovò il tema della veduta, anche sull’onda delle crescenti richieste del nuovo mercato internazionale dell’arte. La straordinaria fortuna di quel genere e la conseguente moltiplicazione, sia grafica che pittorica, portò a variabili visionarie e a nuove declinazioni del paesaggio storico, fino alla pratica del capriccio, dell’arbitrario assemblaggio di valli e antiche rovine, di lagune e fantasie del pittoresco.
Le misure del corpo
Può dirsi un vero e proprio genere, nel campo delle arti, anche quello delle cosiddette Accademie. Si chiamano così i disegni che ritraggono un nudo in posa, che indagano le proporzioni e le misure del corpo umano e, per secoli, sono stati parte fondamentale nel bagaglio di esperienze che un artista doveva vantare. Paragonabile a quello che il solfeggio è per uno strumentista di musica classica, il disegno dal vero di un modello vivente è divenuto simbolo stesso della scuola d’arte. Accademia è il termine che definisce il tema del corpo come oggetto di studio, come esercitazione della mano e richiama, nell’etimo, quel simposio greco che stava tra filosofia, scienza e arte.
Lo studio del nudo, da strumento formativo del mestiere, diviene una esperienza che si colloca tra pratica della conoscenza e atto creativo, ma pertiene anche alla speculazione intellettuale. Anche il corpo è un territorio da indagare e conoscere nelle forme e nello spirito, un paesaggio fatto di armonie e torsioni, di gesti significanti e disposizioni d’animo, di tensioni muscolari e morbidi atteggiamenti. Anche questi sono racconti e repertori, segni e disegni che dispiegano l’alfabeto delle azioni umane. Nelle pose della classicità c’è sovente un’intonazione atletica che, di norma, cerca nel corpo anche la bellezza armonica e proporzionale. Basti pensare all’energia contratta, epica, che si sprigiona dai disegni di nudo michelangioleschi, dove l’atletica viene applicata anche a semplici snodi articolari, di un polso o del collo, per giungere a una tensione enfatizzata del corpo, che sembra incaricarsi anche di funzioni morali.Mentre sfociano in un intimismo filosofico i busti tortili di Pontormo.
Talvolta il disegno di nudo risulta preparatorio ad una creazione più ampia, non mancano i gesti funzionali a definire una figura che, entro l’insieme di una composizione pittorica, si ritroverà vestita, accade ripetutamente nei fogli di Raffaello, mentre nell’altro grande urbinate, Federico Barocci, la ricerca di una consonanza della posa assume aspetti quasi ossessivi, insistiti ritmicamente nel medesimo foglio. I tre Carracci, a Bologna e sul finire del XVI secolo, cercheranno una verità sentimentale, sposata al naturale, mettendo in posa garzoni e contadine, cercando di evitare i filtri aulici ed eroici che ancora dominavano la maniera.
Nel Seicento la pratica della nudità in posa è diffusa e nascono varianti che corrispondono ad una sorta di capriccio di nudo, lo si percepisce nitidamente guardando i tanti fogli del fiorentino Cecco Bravo, ma già nel secolo prima, per Parmigianino, Niccolò dell’Abate o per il Morazzone era cosi. In molti altri artisti i disegni di nudo si attestano e si isolano come puri esercizi, finalizzati ad una lenta e sistematica assimilazione delle forme e delle proporzioni fisiche. Anche pittori con stili assolutamente diversi tra loro applicano questo principio scolastico, da Cavalier d’Arpino a Andrea Sacchi, da Carlo Cignani ai Gandolfi. Questi ultimi, i fratelli Gaetano e Ubaldo, possono essere presi a ‘modello’, perché promotori di un rinnovato concetto di scuola accademica che segnerà la cultura artistica tra Sette e Ottocento, non solo a Bologna. Attraverso questa metodica del disegno dal vero l’armonia cercata sul corpo in posa, finisce (finiva) per instillarsi, nella mente del pittore e dello scultore, nell’archivio automatico dei suoi ricordi, armonizzandosi a quelli. Allora l’artista accademico riusciva ad accedere istintivamente a quella memoria formale senza sforzo o senza la necessità di avere sempre un modello davanti a sé. Pressoché tutta la cultura manierista e buona parte di quella neoclassica era basata su tali fondamenta mnemoniche. Tutto questo pertiene alla morfologia, alla materia artistica che indaga la forma esterna di un corpo, da distinguersi nettamente dall’anatomia, branca del disegno che ne studia la struttura e la composizione interna.
Anatomia di un equivoco
Quello dell’anatomia artistica è argomento da trattare e disquisire in un’occasione più ampia e specifica, ma è bene cogliere anche questa per chiarire ciò che ritengo un annoso e consolidato equivoco. Tutta la trattatistica fa risalire a Leonardo anche questa disciplina, senza confessare che gli studi grafici del genio toscano erano interamente finalizzati ad una conoscenza della macchina umana, a un apprendimento delle parti e delle funzioni del corpo e mai risultano preparatori a una figura presente in un suo dipinto. Così si è usata la mitologia rinascimentale per avvalorare una disciplina estetica che invece si affianca al mondo artistico molto più tardi. Il disegno anatomico si diffuse infatti nelle accademie di Belle Arti, a partire dalle città che avevano una università di medicina.
Nasce come supporto alla scienza e come formazione di provetti illustratori di testi medici. Mentre per le strette necessità dell’arte la morfologia è, storicamente, di gran lunga più importante dell’anatomia. Quest’ultima inizia a divenire particolarmente utile nello studio artistico quando nasce il disegno cinetico, il cosiddetto cartone animato. Le necessità della conoscenza anatomica connesse al movimento, alle strutture ossee e muscolari che lo governano, diventano allora cruciali. Ma seguire questa pista ci porterebbe altrove e ci ripromettiamo di dedicare a questo affascinante argomento un più adeguato spazio in una prossima edizione della Biennale, nella quale i disegni scientifici sul corpo umano si affiancheranno agli erbari, agli studi di zoologia, di biologia e delle altre scienze naturali.
I lineamenti del volto
Lo studio grafico del volto umano non può invece qualificarsi come genere artistico, andrebbe semmai rubricato quale necessità imprescindibile, come umano bisogno di conoscenza, come perenne sforzo alla ricerca dell’io. Forse per questo è divenuto il tema preminente di tutta la storia dell’arte e nemmeno nello specifico terreno del disegno è possibile tracciarne nascita e sviluppo, tendenze o linee guida. Ci sono state epoche, culture e religioni che hanno fatto, del volto, il luogo di un codice rigoroso, di un rito immutabile. Basti pensare al volto bizantino, tramandato nelle icone al pari di una liturgia spirituale. Ma dopo che Giotto aprì un varco in quel registro ieratico, il volto ha iniziato (ha ricominciato) a parlare una lingua sempre più declinata in direzione individuale. Seppur in proporzioni diverse le componenti simboliche del mondo spirituale, quelle dell’ideale estetico e quelle del senso naturale hanno continuato, lungo i secoli, a danzare intorno al volto, facendo prevalere ora l’uno ora l’altro filtro espressivo, ma nella sostanza ogni artista continua a confrontarsi col mondo a partire dal proprio specchio. Il viso è parte eletta del corpo, è l’unica a contenere tutti e cinque i sensi, ma oltre allo sguardo, al tatto, all’udito, al gusto e all’olfatto il volto detiene anche il pensiero e la parola.
Abitano il viso dunque le principali porte di ingresso e di uscita che l’uomo utilizza per porsi in relazione col mondo. Il capo è allora sintesi dell’uomo e con lui lo è del mondo stesso. La testa è un mondo appoggiato sul corpo. Ogni volto ha la propria unicità e il suo studio diviene un argomento artistico infinito, luogo di inesplorate varianti, di smarrimenti della ricerca. Le sue incalcolabili espressioni, sono quasi indicibili, perché ogni viso può contenere un proprio vocabolario di sentimenti e ogni impercettibile movimento muscolare corrisponde a una sfumatura dello spirito, del temperamento. Il volto è un paesaggio dall’orografia significante, fatto di avvallamenti e colline, radure e fitte boscaglie, cespugli e picchi che si ergono, con grotte e cavità misteriose.
Ma la testa è anche luogo dello spirito, trova espressione negli innumerevoli moti sentimentali e si serra nell’enigmatico sonno, in quella che viene intesa come smarrimento dei sensi. Si sono per lungo tempo definite Teste di carattere gli studi di volti pensosi e accigliati, le facce che davano repertorio a Profeti e Apostoli dalle barbe folte e scosse dal vento o che delineavano languidi visi di sante dagli occhi rivolti al cielo e dalle guance rotonde. Le teste disegnate di Leonardo, divise tra grazia e conoscenza, quelle di Raffaello, equilibrate tra ideale e natura o quelle epiche e temperamentali di Michelangelo sembrano aprire differenti strade al volto, che ogni artista ha finito, con più o meno coscienza, per seguire.
Forse le veemenze dei volti di Andrea del Sarto, le tenerezze nuvolose dei pastelli di Barocci o le incisività ottiche di Tanzio da Varallo, le lucidità del Sassoferrato o le vaghezze del Tiepolo tracciano, lungo i secoli, nuove rotte, ma i solchi principali sono quelli. Tanti, nelle generazioni successive, hanno saputo imprimere il loro stile a visi di sconosciuti in posa, che noi ora assimiliamo ai caratteri dello stesso autore. Certi volti espressivi o certa disposizione dello sguardo, da ritratto di un individuo sono divenuti schema prediletto e ricorrente di certi creatori, stilemi fisionomici che hanno finito per sostituirsi a una firma, per divenire cifra di una particolare poetica del racconto di quell’artista. Molti pittori, con istinto o con lucida coscienza, hanno finito per eleggere un volto sopra gli altri, alcuni hanno scelto il proprio, altri hanno cercato di definire caratteri ideali che sono serviti da intonazione per tutti i volti che hanno creato.
Ben prima della scienza è stata l’arte a indagare le geometrie e le geografie del volto umano, a insistere sulla rappresentazione degli affetti e delle sensualità racchiuse nel capo, nell’involucro del cranio, nel vestito della mente.
Massimo Pulini