Nicolas Pascarel – Winter in America

Informazioni Evento

Luogo
SPAZIO KROMÌA
Diodato Lioy 11 80134 , Napoli, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

lun/merc/ven 10.30-13.30 e 16.30-19.30
mar/giov/sab 10.30-13.30

Vernissage
20/05/2016

ore 19

Artisti
Nicolas Pascarel
Generi
fotografia, arte contemporanea, personale

In mostra, due pannelli di grande formato dalle atmosfere intime e sospese, capaci di far dialogare arte fotografica e letteratura in sorprendente cortocircuito linguistico ed evocativo: opera tra le opere, un racconto scritto dal fotografo diviene parte integrante e deflagratore generativo del progetto espositivo.

Comunicato stampa

KROMÌA è lieta di presentare “WINTER IN AMERICA”, la nuova personale napoletana dell’artista Nicolas Pascarel.

“Le mie labbra sono poggiate al bordo della finestra, di fronte all’oceano. Così saranno salate quando arriverai. Non aspetto che te, non aspetto che noi. Vedi, ho pensato a tutto. Tutto quello che ami. Tu non mi hai detto l’ora, né il giorno, men che mai il mese. Dell’anno non ci interessa. Nulla importa!”
(Nicolas Pascarel, da Winter in America)

In mostra, due pannelli di grande formato dalle atmosfere intime e sospese, capaci di far dialogare arte fotografica e letteratura in sorprendente cortocircuito linguistico ed evocativo: opera tra le opere, un racconto scritto dal fotografo diviene parte integrante e deflagratore generativo del progetto espositivo.

Dal testo critico di Diana Gianquitto (curatrice della mostra, con la direzione artistica di Donatella Saccani): “Osservazione e precipizio. Non è così di tutti il vivere, almeno in qualche rivolo, tensione di procacciamento e struggimento degli infiniti non ancora, o non più, di cui son fatte le imperfette finestre temporali ed esistenziali delle nostre vite?
Come per l’inquieto e nostalgico amante proteso ‘comme un condor’ nel racconto di Nicolas Pascarel dalla finestra della sua torre sull’Oceano, a scorgere l’arrivo incompiuto dell’amata, o per il passeggero sulla vettura dello scatto in mostra, affacciato a un finestrino che solo gli consente di vedere un’inesatta porzione di reale dalla centralità perduta e preclusa, perché troppo veloce, o troppo lenta, è andata la vita sulla strada della sua capacità di percezione.
Brivido libertà paura. Affacciati a quelle finestre, mai perfettamente centrate con le nostre fami o esitazioni, solo in compagnia degli unici due infiniti capaci di puntellarne gli infissi: l’Oceano d’inconosciuto e possibile fuori di me, l’interminabile infilata di piani dell’arroccamento di torre dentro di me”.

NICOLAS PASCAREL
WINTER IN AMERICA
20.5.2016 - X.X.2016

Pas encore, ne plus
di Diana Gianquitto

Ottundimento. E vertigine.
Affacciati così da una finestra, protendendo le reni e l’attesa così forte da far male, acuendo sguardo e cuore, assordati dal vento di sale e dal suo sapore sulle labbra. Innanzi a noi, l’Oceano.
Osservazione e precipizio. Non è così di tutti il vivere, almeno in qualche rivolo, tensione di procacciamento e struggimento degli infiniti non ancora, o non più, di cui son fatte le imperfette finestre temporali ed esistenziali delle nostre vite?
Come per l’inquieto e nostalgico amante proteso “comme un condor” nel racconto di Nicolas Pascarel dalla finestra della sua torre sull’Oceano, a scorgere l’arrivo incompiuto dell’amata, o per il passeggero sulla vettura dello scatto in mostra, affacciato a un finestrino che solo gli consente di vedere un’inesatta porzione di reale dalla centralità perduta e preclusa, perché troppo veloce, o troppo lenta, è andata la vita sulla strada della sua capacità di percezione.
Brivido libertà paura. Affacciati a quelle finestre, mai perfettamente centrate con le nostre fami o esitazioni, solo in compagnia degli unici due infiniti capaci di puntellarne gli infissi: l’Oceano d’inconosciuto e possibile fuori di me, l’interminabile infilata di piani dell’arroccamento di torre dentro di me. Lì su quella torre. Che è la torre della distanza e del ritrovamento. Del perdere nello straniamento e nell’isolamento, ma anche dell’orientamento e del ritrovare. Sé, casa, amore. Più che inevitabile difesa, unica ricostruzione possibile - nel marasma dei flutti continuamente mutanti - dell’unico luogo possibile inattaccabile, presenza interiorizzata di sensus sui ipsius e di tutto ciò che ci è stato levato. O ancora non corrisposto a ciò che spetta.
Volutamente imprecisa e irrazionale, la finestra di sguardo fotografico ritagliata da Nicolas Pascarel risucchia, monopolizzante unica regina nel biancore della parete, sfonda come apertura ultradimensionale, disorienta, decolloca. Per poi, solo apparentemente rassicurati, rimbalzare nello straniamento maggiore di un altro tessuto linguistico, non più visivo ma verbale, e straniero, quello del racconto in francese di Pascarel – lingua natale dell’autore, ma non del contesto di fruizione - generatore del progetto espositivo. Non didascalia ma specularizzazione postconcettuale, traslazione interlinguistica quasi da Narrative art, costruzione, in ultima analisi, di quell’unico e terzo luogo in cui la narrazione del logos e l’altra dell’imago trovano integrazione, in sistemico accrescimento, nella nuova e terza entità della partecipazione interiore del fruitore.
A osservarla di sfuggita, quella veduta dal finestrino dai colori saturi e cupi eppure vibranti, metafisici, è solo errato spicchio di mondo, squilibrio di luci e tagli e dettagli negati, preclusi, appunto come se la macchina della vita si fosse avanzata o arrestata troppo velocemente, per poter inquadrare allo sguardo e alla conoscenza angolazioni centrate, o letture esatte. Ma a ben vedere, una mirabile sapienza di sciatteria fenomenologica costruisce un perfetto cannocchiale ontologico di rettangoli degradanti: il perimetro dell’opera, poi il nero del finestrino, quindi la porzione di terreno e grattacielo insieme inquadranti lo specchio di cielo; finalmente, l’infinito, non più riassorbito da alcuna frazione di sguardo. Molteplici finestrini in uno, quasi sovrapposizione sincronica della diacronica, dolorosa infilata di finestre degli immensi grattacieli emergenti, interminabili verso il cielo come ciascun giorno d’attesa, abbandonati e risorti come le speranze. Assorbendo verso il basso e a sinistra nell’approssimarsi dal punto di fuga al punto di vista di chi scatta, il risucchio del cannocchiale segue l’iconografia della diagonale compositiva avvertita come “perdente” secondo la percezione umana (al contrario della diagonale puntante in alto e a destra, non a caso utilizzata in ogni ritratto a condottieri vittoriosi a cavallo), eppure arrivato al fondo incrocia i versi, con rimbalzante doppio movimento, verso l’alto e l’esterno, invertendo grazie alla scansione luministica – progressivamente crescente in alto e a destra – sensi emotivi e semantica compositiva. Volutamente imprecisi e irrazionali, appunto, ma luminosi. Come l’amore.
E così, il mondo è lì e noi tirati indietro. Ma andiamo avanti. Come il protagonista del racconto tira avanti ad aspettare l’amata. Con determinazione e amorevole eterna dedizione, pazienza. Non snervata e ostile. Il perdono nella delusione e nell’attesa. Trasfigurando, novello D’Annunzio o Petrarca, in natura meravigliosa anche l’essenza dell’amata, o dell’attesa stessa. E il disorientamento dell’immagine fotografica si specularizza, con la narrazione verbale, nella surrealtà e straniamento di una sospensione infinita alla Antonioni, macrocontenitore emotivo di riferimento, con il suo The Passenger, del blog fotoletterario di Pascarel da cui proviene il racconto in mostra, vera e propria opera tra le opere. A veder bene, fotografia e testo dalla Rete in esposizione funzionano esattamente come reciproci dispositivi-interfaccia per attivarsi vicendevolmente, generando insieme, oltre alla già menzionata superiore dimensione di narratività e lirismo interiore nel fruitore, anche un ulteriore spazio integrato di immagine-testo-relazionalità comunicativa web, che dilata nel virtuale l’immaginario e qualifica il progetto di Pascarel come operazione intermediale e interlinguistica ad ampio raggio. Per non parlare di un ulteriore rimando criptato tra linguaggi, quello del titolo della mostra in inglese – aggiuntivo straniamento – richiamante l’omonimo Winter in America (1974), morbido brano jazz-blues-soul dalla carezzevole nostalgia di testo e melodie di Gil Scott Heron, discusso e sovversivo personaggio anch’egli in perpetuo viaggio tra culture e generi.
Del resto, la perfetta fusione e funzionalità del marchingegno di funzionamento artistico del rimbalzo/specularizzazione tra imago e logos di Pascarel è tutta concentrata lì, proprio in quel “perché comme un condor” – dall’intraducibile idea di piegarsi arcuato, appostamento proteso e teso in scrutamento predatorio, come un condor tra cielo e rupi – che esprime esattamente in verbale maquette l’essenza della fotografia per lui: intraducibile osservazione, ma rapace presa sul reale. Nostalgia e sehnsucht. Cercare una possibilità di osservazione, e all’osservazione stessa cercare un significato. Per far acquisire senso a istanti indefinibili. L’unico senso possibile, quello dello spaesamento. Un po’ come nel vivere dell’autore, straniero ovunque e cittadino dappertutto, trascinato e vissuto tra innumerevoli e forti luoghi di vita e d’animo differenti. Non per nulla, nelle sue immagini l’artista lascia volutamente nell’ambiguità definizione e punti di riferimento del contesto geografico e situazionale, evocando ma mai suggerendo ipotesi, e lasciando nel disorientamento il fruitore, mai sicuro sulla cittadinanza di cui investire le atmosfere. E il senso interiore, alla fine, la personale costruzione di una torre di significato, è e resterà l’unica cosa che vale. Se l’incertezza è la maggior certezza che vi sia, tanto vale farne poesia.
Tentare è premio alla mia ricerca. E così anche baciare la finestra dell’attesa, come fosse il suo soddisfacimento. In assenza e anelito di definizione, contatto, scambio. Nessun mare può avere onde se non trova coste a rimandarlo indietro, nutrendolo di limite forse, ma di eterno movimento. E intanto, prenderci cura di noi – “prends soin de toi, Nico”. Coi liberi generi di conforto – “mon confort, pour ne pas dire ma tranchée” - che ciascuno riuscirà a portare su quella torre. Non serve e non piace ingannare l’attesa e se stessi, ma nutrirla e nutrirsi di sale e di baci all’Oceano. E dell’unica, incommensurabile presenza interiore capace di sostenere le incessanti onde di quei non ancora, non più: la consapevolezza della possibilità e gratitudine di tutti i forse un giorno, però un tempo delle nostre vite.